Dal fatidico martedì 24 settembre è cambiato tutto, la strada verso l’elezione presidenziale americana riparte da zero. Con l’avvio della procedura d’indagine preliminare che può sfociare nell’impeachment, annunciato dalla presidente della Camera Nancy Pelosi, siamo in una fase nuova. È chiaro che questa diventa la «campagna elettorale dell’impeachment». Salvo guerre in Medio Oriente o gravi recessioni economiche, il tema dell’impeachment dominerà il dibattito politico nei prossimi 14 mesi. Nel bene e nel male. Le conseguenze si faranno sentire non solo negli Stati Uniti ma anche nel resto del mondo: la politica estera americana, le scelte di Washington nei dossier più caldi dalla Cina all’Iran, verranno interpretate (a torto o a ragione) alla luce della delicatissima posizione in cui viene a trovarsi il presidente.
A far precipitare gli eventi verso l’avvio della procedura d’indagine preliminare, c’è stata la pressione di Donald Trump sul nuovo presidente ucraino perché indagasse su Joe Biden e gli affari del figlio Hunter a Kiev.
In una telefonata con il presidente dell’Ucraina Volodymyr Zelenski, Trump gli ha chiesto aiuto per inguaiare l’ex vicepresidente di Barack Obama. Quest’ultimo è in testa ai sondaggi tra i candidati democratici alla nomination, e al momento è ben piazzato per sfidare Trump nell’elezione del novembre 2020. Hunter Biden, un figlio di Joe, è stato membro del consiglio di amministrazione di una società ucraina, posseduta da un oligarca. In passato quella società e il figlio di Biden furono oggetto di inchieste a Kiev, senza conseguenze. Trump ha chiesto al presidente di quel paese di aiutarlo a trovare notizie compromettenti su Hunter, o la prova che Biden padre abbia tentato di proteggere il figlio da indagini. C’è perfino il sospetto che la Casa Bianca abbia temporaneamente bloccato alcuni aiuti militari all’Ucraina, per rafforzare la pressione. Quest’ultimo dettaglio viene smentito da Trump, che invece ammette di aver chiesto notizie sul «corrotto Biden». E aggiunge, in tono di sfida: che male c’è?
Il presidente era già sospettato nel 2016 di aver ricevuto un aiuto da Vladimir Putin – sotto forma di campagne diffamatorie contro Hillary Clinton – ma nel Russiagate smentì sempre di averlo richiesto, quell’aiuto. E l’indagine di Robert Mueller su quella vicenda non è riuscita a trovare prove certe di una collusione, di un «do ut des». Stavolta invece è lo stesso Trump ad ammettere di aver chiesto l’aiuto in campagna elettorale ad un leader straniero.
Quindi l’accusa è che il presidente abbia cercato l’aiuto di un governo straniero contro un proprio rivale politico. La Costituzione prevede l’impeachment in caso di «alto tradimento, corruzione, o altri crimini gravi». È abbastanza generica e in effetti lascia ampio margine decisionale alla Camera dei deputati, che nel procedimento d’interdizione ha la responsabilità dell’istruttoria.
Ricordo qui, semplificandole al massimo, le regole fondamentali della procedura d’interdizione. La Camera dei deputati (a maggioranza democratica) sostanzialmente ha il ruolo di un pubblico ministero, prepara l’istruttoria, decide o meno l’incriminazione e i capi d’imputazione. Votando sui risultati della propria inchiesta a maggioranza semplice, se la Camera decide l’impeachment passa la palla al Senato. Dove la Camera stessa presenta la sua istruttoria e diventa parte attiva nel procedimento. Il Senato si riunisce sotto la presidenza straordinaria del Chief Justice, cioè il giudice che presiede la Corte suprema (oggi è il repubblicano John Roberts). Lì si svolge il processo vero e proprio. Al termine del quale, per condannare il presidente occorre una maggioranza qualificata dei due terzi. Il Senato attualmente ha una maggioranza repubblicana. Qualora il presidente venga rimosso, gli subentra il suo vice, il repubblicano Mike Pence, fino alla fine del mandato cioè fino al gennaio 2020.
Il gioco che comincia adesso è a dir poco complesso. L’impeachment, a parte le regole generali che ho descritto sopra, non ha tempi certi né procedure molto dettagliate. Essendo stato usato pochissimo nella storia americana, per certi aspetti è un libro bianco, tutto da scrivere. La Costituzione lascia ampia discrezionalità al Congresso nel decidere i modi e le scadenze, su questioni non marginali: per esempio quanta parte del procedimento vada affidato alle commissioni parlamentari e quanto debba svolgersi in aula, quali e quanti testimoni vadano interrogati. È possibile che si trascini fino all’elezione del novembre 2020, oppure che bruci le tappe. Infine e soprattutto, la Costituzione lascia molta scelta al Congresso sulla definizione dei reati da impeachment. In effetti l’interdizione è un processo «politico» nel senso nobile della parola: il dettato dei padri costituenti vide l’impeachment come la massima espressione del dovere di vigilanza del Congresso sul presidente, perciò rimasero vaghi sulle fattispecie di reato.
Vediamo i rischi e gli eventuali benefici politici per gli attori in campo. Cominciando da Trump. Ovviamente lui ha molto da perdere. Se dalla fondazione degli Stati Uniti ad oggi si sono verificati solo tre casi di (tentato) impeachment, una ragione c’è. La messa sotto stato di accusa è una svolta grave per l’immagine del presidente. E tuttavia la sensazione che lui l’abbia quasi voluto, genera ogni sorta di sospetti. Bisogna ricordare che questo è un presidente «di minoranza» fin dalle origini. Eletto con tre milioni di voti in meno rispetto a Hillary, non è mai riuscito ad avvicinare la soglia del 50% dei consensi. Caso unico nella storia, si presta quindi a una campagna per la rielezione anch’essa unica nella storia. Trump ha bisogno di ricorrere a mezzi estremi per conquistare il secondo mandato. Impostare la campagna elettorale come un lungo processo, gridare alla persecuzione, atteggiarsi a vittima, è un’opzione rischiosa ma non illogica. Il sospetto che lui abbia voluto andare al processo è stato alimentato dalla rapidità con cui ha proceduto alla pubblicazione della famosa telefonata col presidente ucraino, all’origine del Kiev-gate. In altre circostanze, durante l’indagine di Robert Mueller sul Russiagate, la squadra di Trump adottava tattiche dilatorie, rifiutava di fornire le informazioni al Congresso. Stavolta invece la trascrizione della telefonata – ancorché incompleta – è avvenuta in poco tempo. Ma può darsi semplicemente che Trump non concepisca l’illegalità potenziale di ciò che ha fatto. Nei suoi comportamenti traspare spesso la mancanza di senso delle istituzioni. Lui applica nella sua azione come capo di Stato delle tattiche che gli erano consuete nel mondo degli affari e si stupisce che gli vengano rinfacciate.
Anche i democratici rischiano. Lo sanno, è questa la ragione per cui la presidente della Camera Nancy Pelosi fino all’ultimo aveva tentato di evitare l’avvio della procedura verso l’impeachment. Ci sono tre scenari in cui la vicenda prende una brutta piega per loro: A) Il Kiev-gate si sgonfia nel corso delle indagini preliminari; un po’ com’è accaduto dopo il Rapporto Mueller sul Russiagate, che elencò sospetti gravissimi ma non arrivò alle prove decisive. Questo scenario appare poco probabile vista la natura politica dell’indagine. La richiesta d’interferenza ucraina c’è stata. B) La Camera vota sull’impeachment e ci sono defezioni nei ranghi dei democratici più moderati, tali da far mancare la maggioranza; va ricordato che ancora dopo il pronunciamento della Pelosi rimanevano alcune decine di deputati dem contrari all’impeachment; questo sarebbe uno smacco grave, si aprirebbe una lotta intestina al partito con regolamenti di conti che indebolirebbero qualsiasi candidato prescelto per affrontare Trump. C) La Camera vota a maggioranza la messa in stato di accusa, poi il processo vero e proprio passa come previsto al Senato; dove si arena perché manca la maggioranza qualificata dei due terzi; per condannare Trump ci vorrebbero defezioni massicce nel suo stesso partito, al momento improbabili. I democratici griderebbero che il processo è truccato, però il presidente sarebbe salvo. Si rischierebbe uno scenario alla Bill Clinton: dopo la mancata condanna al Senato, la sua popolarità addirittura ebbe un aumento. Non è un caso se nessuno dei tre impeachment della storia è giunto alla conclusione.
Tra gli sviluppi più immediati: dovrebbe testimoniare alla Camera il «denunciatore segreto», il whistleblower, colui che dall’interno dell’intelligence lanciò per primo l’allarme sulle pressioni di Trump verso il presidente ucraino.
Le due Americhe, quella democratica e quella repubblicana, si stanno già «armando» per un conflitto di lunga durata, da combattersi all’ultimo sangue. Il resto del mondo fa i suoi calcoli. Che impatto avrà questa storia sul negoziato commerciale con la Cina? E sullo scontro duro con l’Iran?
Ricordo le date-chiave della marcia di avvicinamento al voto del 2020. Le primarie per selezionare il candidato democratico cominciano il 3 febbraio in Iowa, proseguono l’11 febbraio nel New Hampshire. L’appuntamento decisivo arriva il 3 marzo con un SuperMartedì dove votano gli Stati più grandi. I giochi dovrebbero essere fatti entro il 13 luglio 2020 quando si apre la convention dei democratici a Milwaukee, nel Wisconsin. Che impatto avrà la vicenda dell’impeachment su Biden, fin qui in testa nella corsa? Potrebbe rafforzarlo per il suo ruolo di vittima della congiura trumpiana; a meno che emergano nuovi dettagli compromettenti sugli affari del figlio in Ucraina o l’eventuale appoggio politico del padre quando era vice-presidente. Un prezzo politico rischia di pagarlo l’intero partito democratico: se passano in secondo piano i confronti sulle idee, sul programma politico, e l’intera campagna ruota attorno al processo contro Trump.
Infine, non si può escludere che in campo repubblicano l’impeachment incoraggi le candidature alternative al presidente. La convention repubblicana è fissata per il 24-27 agosto a Charlotte, North Carolina. Il verdetto finale, degli elettori, il 3 novembre 2020.