Fra le principali caratteristiche che contraddistinguono le società occidentali post-moderne vi sono tolleranza ed accettazione delle diversità lato sensu. La crisi globale del 2007 ha saputo, però, insinuare il «germe» della paura di una rinnovata pandemia economica simile alla Grande Depressione degli anni 30. Si è assistito, quindi, ad un progressivo inasprimento della già latente logica dell’aut-aut, secondo cui una scelta implichi necessariamente l’esclusione di un’altra. Difficilmente, però, un approccio esclusivista pare essere adatto per affrontare appieno la complessità delle sfide post-industriali, che necessiterebbero invece dell’opposto, cioè di uno inclusivista (et-et) dove un’opzione non esclude inevitabilmente l’altra. Ad esempio, la crescita di Paesi già ricchi viene spesso «etichettata» come in contraddizione con slow economy e «sostenibilità», che suffragano invece il rallentamento fisiologico del PIL a solo vantaggio della salvaguardia economico-ambientale.
Ciononostante, è difficile pensare che l’espansione economica in nazioni già industrializzate (quindi, con caratteristiche meno impattanti) possa essere in qualche conflitto con maggiore benessere individuale e sociale. Potendo poi il settore terziario (perlomeno, una sua parte) essere meno invasivo per «impronta ecologica», la crescita avrebbe occasione di sfruttare proprio questo canale. Il rapporto fra scarsa inflazione e stentata ripresa economica è un altro assunto sciorinato a mo’ di mantra. Certamente, il discorso è troppo vasto, ma ciò non implica che venga dimenticato il concetto di «inflazione buona», che invece ha caratterizzato gli anni 50 con la sua simultaneità di prezzi in discesa e PIL in forte espansione.
Dovrebbe forse essere compito dei policymaker indagare perché – pur a fronte di avanzamenti tecnologici esponenziali – oggigiorno non si possano registrare sia prezzi in calo sia crescita economica sostenuta. Ossimoricamente, invece, l’opinione pubblica è messa di fronte a scelte «obbligate» fra prezzi in ascesa ed economia in ripresa oppure prezzi in calo e PIL in diminuzione.
La logica dell’«o mangi la minestra o salti la finestra» è applicata persino all’accostamento (apparentemente ineluttabile) fra maggiore longevità ed innalzamento dell’età pensionabile. Professare che, a fronte di un miglioramento di qualità ed aspettativa di vita, si debba pagare lo scotto di rimanere in ambito lavorativo per «x» anni in più equivale a non accorgersi che il beneficio netto della maggiore longevità verrebbe così vanificato. In ogni sistema economico che applichi approcci di efficienza e rinnovamento, la forza-lavoro non dovrebbe essere costretta a posticipare la pensione, bensì sarebbe libera di scegliere (mettendo in conto rendite minori) i tempi del proprio ritiro fermi restando i limiti di età. Assurdo?
L’affermazione odierna, secondo cui la sostenibilità dei sistemi pensionistici sia garantibile solo attraverso attività lavorativa prolungata, equivale a sostenere che – in barba alla rivoluzione tecnologica sempre in fieri – tali avanzamenti non siano sufficienti ad assicurare un ritiro più veloce dal mondo lavorativo stesso. Eppure, il passato dovrebbe insegnare che – dopo i miracoli economici europei e la conseguente maggiore produttività – la settimana lavorativa si ridusse presto da 6 a 5 giorni senza che ciò abbia comportato alcun detrimento economico: anzi.
Senza aprire la questione della mancanza di coraggio nell’osare di «andare contro corrente» in tali decisioni, resta comunque irrisolto perché simili logiche possano oggi sembrare irresponsabili. Negli aut-aut vigenti si può anche fare confluire la conflittualità intergenerazionale conseguente al binomio fra «permanenza della forza-lavoro più matura versus investimento in giovani leve». Se è chiaro, da un lato, che ogni sistema economico abbia limiti di capacità di assorbimento (quindi, ogni innalzamento dell’età pensionabile non sgravia quei tassi di disoccupazione giovanile al 18,5% (1) del giugno 2016 poco lusinghieri della UE), dall’altro è pur vero che puntare sui giovani non debba prescindere da un naturale passaggio di testimone da parte dei senior, i quali con il loro grande bagaglio di esperienze da tramandare possono solo arricchire l’apprendimento generazionale.
Un ultimo esempio di questa «carrellata» si riferisce al contante, sempre più demonizzato nonostante il suo uso sia suggellato da leggi fondanti in molti Paesi europei (ad esempio, all’art. 14 del Bundesbankgesetz tedesco, che ne sancisce l’utilizzabilità illimitata): credere, infatti, che l’illegalità sia nutrita perlopiù da banconote sottratte all’occhio vigile dello Stato è paragonabile a confondere «milioni» con «miliardi», cioè a non avvedersi che il malaffare abbisogna non solo di scarsa tracciabilità, ma anche di immediatezza di trasferimento (alias mezzi di pagamento elettronici).
L’approccio aut-aut mina strutturalmente il potenziale di espansione e d’immaginazione economica, escludendo a priori l’esatta metà degli scenari possibili. Il processo di rinnovamento dell’economia in seguito agli sconvolgimenti della crisi trigemina (economica, finanziaria e debitoria) non potrà più prescindere da approcci inclusivisti e degni di quella multiformità di visioni che è sempre stata origine indiscutibile della ricchezza economica, sociale e culturale delle società liberali.
Note