«Non abbiamo attaccato l’Ucraina». Ha dichiarato giovedì scorso il ministro degli esteri russo Sergey Lavrov. Una palese bugia che sembrava chiudere, almeno per quel momento, ogni prospettiva di soluzione diplomatica. E il suo collega ucraino Dmytro Kuleba ha confermato, dopo un colloquio lampo a seguito della mediazione turca, che «i russi vogliono soltanto la resa». La guerra prosegue dunque, sempre più cruenta man mano che il fallimento del Blitzkireg russo diventa evidente, e l’impossibilità di ammetterlo rende gli attacchi delle truppe di Mosca disperatamente brutali. Prima di capire dove potrebbe fermarsi Vladimir Putin, e a quali condizioni, il problema è dunque come convincerlo a fermarsi. Quali shock devono arrivare al Cremlino per spingere il suo inquilino a rassegnarsi a una realtà che non corrisponde alle sue ambizioni e ai suoi piani?
Il primo e più evidente fronte di combattimento è quello reale, sul terreno. Dopo due settimane i militari russi non sono riusciti a prendere nessuna delle grandi città ucraine. La resistenza dell’esercito ucraino è merito dell’ispirazione di chi difende la propria terra, ma anche degli aiuti degli alleati Nato: i droni turchi Bayraktar e i razzi anticarro Nlaw dei britannici stanno facendo la differenza nel fermare le colonne corazzate che puntano su Kiev. Ma un altro alleato insperato è la clamorosa disorganizzazione degli invasori: è ovviamente lecito sospettare di propaganda di guerra le dichiarazioni dei militari ucraini sui 12 mila caduti russi, ma le decine di video e fotografie che riempiono i social, di soldati russi che si arrendono agli ucraini, sono stati autenticati dai loro genitori in Russia. Così come sono stati verificati decine di filmati di carri e aerei russi abbattuti, e di blindati impantanati e trascinati via dai trattori dei contadini ucraini. Il Pentagono stima le vittime russe in 2-4 mila (alla fine di settimana scorsa), un numero enorme se si considera che in dieci anni di invasione dell’Afghanistan Mosca aveva perso meno di 15 mila uomini.
Il secondo fronte sul quale Putin sta subendo un attacco devastante è quello economico. Le sanzioni occidentali hanno colpito gli oligarchi e i capi del regime, inclusi lo stesso presidente e il suo ministro Lavrov, privando un’intera classe dirigente di deputati, propagandisti e imprenditori della possibilità di godere delle loro ricchezze in Europa. Ma gli yacht e le ville sono soltanto danni collaterali di un’offensiva che ha visto la borsa di Mosca polverizzata e il rublo dimezzato. L’agenzia Fitch ha declassato l’economia russa a livello di default e la JP Morgan pronostica un calo del Pil del 35%. In pochi giorni la Russia si è ritrovata senza più aerei con cui volare all’estero, banche con cui effettuare i pagamenti e tecnologie con cui armare anche il proprio arsenale. A queste sanzioni governative si è aggiunto un boicottaggio globale dei maggiori marchi internazionali: in poco tempo i russi hanno perso praticamente tutti i prodotti e servizi che avevano costituito il benessere putiniano, quello in nome del quale molti avevano rinunciato alla protesta politica. McDonald’s e Spotify, Toyota e Netflix, Samsung e Zara: la Russia si sta risvegliando nel 1984, perdendo trent’anni di modernizzazione e globalizzazione.
Gli Usa hanno annunciato di non comprare più il petrolio russo e l’Unione europea ha fatto partire un piano per tagliare il prima possibile le forniture di energia russa. Le speranze del Cremlino in un aiuto cinese sono abbastanza fragili: la costruzione di nuovi gasdotti impiegherebbe anni e Xi Jinping già in passato si era rifiutato di pagare il metano russo a prezzi europei. Inoltre Pechino sembra restio ad abbracciare l’idea di Putin di uno scontro totale con l’occidente: la sua economia è molto più interdipendente e se ha affiancato Mosca nella richiesta di ridisegnare le sfere d’influenza, non ha intenzione di seguire la sua crociata revanscista alla riconquista dell’Urss perduta. La Cina vorrebbe anche evitare di venire colpita dalle sanzioni «secondarie», e ha rifiutato ai russi la fornitura dei pezzi per gli aerei sanzionati dall’Europa e dagli Usa. Qualcuno sospetta che i cinesi stiano aspettando il tracollo definitivo dell’economia russa per comprare a prezzi da liquidazione le società più appetibili, ma questo significherebbe in ogni caso la fine del regime politico attuale, se non altro perché con una guerra in corso il valore di questi titoli rimarrebbe pari più o meno a zero.
È una guerra contro il tempo, dunque, prima che la Russia si trovi definitivamente isolata, con una cortina di ferro che sta calando anche sugli scambi culturali, mentre decine di migliaia di russi stanno cercando la fuga con gli ultimi aerei in partenza. Istanbul e Tbilisi si sono riempite di intellettuali e creativi in attesa di un passaggio verso occidente. Molti di più non riescono a scappare: i voli sono stati bloccati, i risparmi polverizzati, le carte di credito non funzionano più e l’ordine di Putin di non poter prelevare più di 10 mila dollari dal proprio conto per sei mesi rende impossibile la fuga con i contanti. I risparmi di decine di milioni di persone sono annientati, mentre i prezzi crescono vertiginosamente e molte catene commerciali hanno già introdotto limiti all’acquisto di beni alimentari poco deperibili come zucchero, farina e conserve. È vero che i canali dove manifestare lo scontento sono stati bloccati – Facebook e Twitter sono stati banditi, i media indipendenti russi chiusi e quelli internazionali oscurati – e qualunque dissenso pubblico sulla guerra ora può essere punito con una condanna fino a 15 anni di carcere. Però è evidente che l’impoverimento così rapido di un intero paese, unito al rischio di vedere i propri figli venire mandati in guerra – Putin ha promesso che i militari di leva non sarebbero stati mandati oltre confine, ma è stato subito smentito dai suoi stessi generali che hanno ammesso l’utilizzo di coscritti – minerà ulteriormente i consensi già abbastanza scarsi del regime. Nei 23 anni precedenti le guerre avevano sempre giovato alla popolarità di Putin, ma stavolta perfino i sondaggisti «ufficiali» registrano il 23% di dichiaratamente contrari, più un altro 20% che si rifiuta di rispondere. I numeri reali probabilmente sono diversi e cambieranno ulteriormente appena gli effetti delle sanzioni colpiranno non solo la classe media e l’intellighenzia, ma anche i ceti meno abbienti.
Il dilemma del Cremlino è quindi la necessità di chiudere rapidamente la guerra senza però perdere la faccia, e l’impossibilità per ora di fare arrivare questa consapevolezza al vertice. Ogni giorno di bombardamenti aumenta la conta delle vittime ucraine, e quindi l’indignazione dell’opinione pubblica internazionale e la risolutezza dei governi a punire una Russia che ogni giorno si vede rivolgere contro sanzioni impensabili fino alla settimana prima. La migliore speranza di Putin, a questo punto, è sopravvivere rinchiudendosi in un Paese trasformato in una Corea del Nord, isolato e povero, a governare una élite che potrebbe essere la prima a volerlo eliminare per riprendersi almeno una parte delle proprie ricchezze.
Lo zar sull’orlo del precipizio
La Russia sta subendo perdite devastanti soprattutto sul piano economico e Vladimir Putin rischia grosso
/ 14.03.2022
di Anna Zafesova
di Anna Zafesova