Lo strappo di Trump

Usa-Israele – Il gesto del presidente americano aggiunge un colpo di scena ad una storia iniziata 70 anni fa con il riconoscimento dello Stato di Israele da parte dell’Amministrazione democratica di Truman
/ 18.12.2017
di Federico Rampini

Lo strappo di Donald Trump su Gerusalemme ha davvero sconvolto tutti gli equilibri in Medio Oriente? O invece è stato un gesto prevedibile, quasi scontato, il riconoscimento di una realtà di fatto? Quanta parte delle reazioni sdegnate nel mondo arabo sono una pura sceneggiata, un atto dovuto, che non corrisponde ad una indignazione reale? E quanto invece l’America sta regalando il Medio Oriente all’influenza di altri, da Vladimir Putin a Emmanuel Macron? Sono passate meno di due settimane dallo shock di «Gerusalemme capitale» (shock per tutti fuorché gli israeliani ovviamente, che tale la considerano dal 1948 o dal 1967), e non è facile fare un bilancio, distinguere tra reazioni tattiche e cambiamenti di lungo periodo.

«Ho deciso, è ora di riconoscere ufficialmente Gerusalemme come la capitale d’Israele». È il 6 dicembre quando Trump pronuncia quella dichiarazione storica che chiude con 70 anni di tradizione diplomatica americana, crea uno strappo con il mondo arabo e larga parte della comunità internazionale. Lo fa rivendicando di essere «uno che mantiene le promesse». Ricorda che «il Congresso ha votato nel 1995 perché questo avvenisse, altri presidenti lo hanno promesso e poi non lo hanno fatto». Ironizza sull’ipocrisia dei suoi predecessori che «regolarmente visitavano Gerusalemme e lì incontravano i capi dei governi d’Israele» fingendo d’ignorare il ruolo di quella città. Lui non sa che farsene di quelle doppiezze, riconosce «quello che è già evidente», perché Israele «ha il diritto di scegliersi la sua capitale come ogni Stato sovrano». L’anti-politico Trump è su un terreno familiare quando dileggia il conformismo dell’establishment diplomatico: «Non possiamo risolvere i problemi continuando a replicare le strategie fallimentari del passato». È questo il filo rosso che unisce le sue svolte in politica estera: non rinfacciatemi gli strappi rispetto ai miei predecessori, guardate ai loro insuccessi, la vecchia politica estera non ha dato frutti.

Una parte del discorso di Trump è rivolto alle sue constituency, disseminato di riferimenti biblici, di elogi alla democrazia israeliana. Nella parte finale cerca di rassicurare il mondo arabo, assicura ai palestinesi che questa svolta non pregiudica i loro diritti, che l’America «non abbandona il suo impegno a un processo di pace, né compromette lo statuto finale che vi avrà Gerusalemme». In teoria lascia aperta la possibilità che la città santa delle tre religioni monoteiste abbia anche funzione di capitale di una Palestina sovrana, almeno nella parte di Gerusalemme Est. Un’ipotesi che lo stesso Trump sfuma assai quando conferma la sua adesione al principio di due Stati, ma solo «se concordato fra le due parti». La formulazione non preclude un ripudio di quel principio da parte del governo israeliano come vorrebbero alcune fazioni estreme.

Il gesto di Trump aggiunge un colpo di scena ad una storia iniziata 70 anni fa con il riconoscimento dello Stato d’Israele da parte dell’Amministrazione Truman, democratica. Seguì un presidente repubblicano, Dwight Eisenhower, capace di equidistanza e di comprensione verso le ragioni del mondo arabo: intervenne nel 1956 a bloccare l’aggressione contro l’Egitto lanciata nel canale di Suez da Francia Inghilterra e Israele. La destra americana si spostò su posizioni più filo-israeliane ma senza abbandonare, almeno fino a George Bush Senior, un’autonomia di giudizio e una capacità di criticare Israele. Con Bush Junior cominciò un’altra storia, segnata in particolare dal ruolo degli evangelici protestanti come roccaforte elettorale della destra. Il fondamentalismo cristiano che è diventato il più sicuro serbatoio di voti repubblicani ha integrato nella propria identità culturale l’alleanza con Israele con espliciti riferimenti alla Bibbia. L’11 settembre 2001 quella visione messianica incrociò la lettura dei neoconservatori sullo «scontro di civiltà» e la guerra mondiale al fondamentalismo islamico. Pur essendo privo di sensibilità religiosa, Trump ha raccolto da Bush Junior quella constituency, così come l’appoggio della parte più conservatrice della comunità ebraica americana (non maggioritaria ma generosa di finanziamenti elettorali). Netanyahu venne apposta in America in piena campagna elettorale per dare una mano alla destra: accettò un invito del tutto irrituale dei parlamentari repubblicani, andò a parlare al Congresso senza neppure avvisare Barack Obama. Fra Netanyahu e Trump sbocciò un idillio, confermato dal clima caloroso della visita di Stato a maggio. Ora Trump paga i debiti: con il portatore di voti straniero, con le constituency americane più radicali e più fedeli. Ma i semi di questa decisione storica risalgono a 22 anni fa, è nel 1995 che il Congresso di Washington votò per trasferire l’ambasciata a Gerusalemme.

Il giorno dopo la svolta su Gerusalemme capitale, Donald Trump raccoglie quel che ci si aspettava: violente proteste palestinesi, denunce dal mondo arabo, una netta presa di distanza da tutti i governi europei oltre che da Russia e Cina. Tutto previsto? O forse no. Qualcosa sembra mancare all’appello. Per esempio un gesto di Benjamin Netanyahu che risponda al regalo storico dell’America con un’offerta altrettanto generosa. Una mossa israeliana che renda credibile la promessa di Trump sul processo di pace. Non ce n’è l’ombra, per adesso. Dunque la mossa di Trump non s’iscrive in un piano preordinato, in cui altri dovevano fare la loro parte?

L’assenza di una contropartita israeliana sembra giustificare la decisione di Trump in chiave di politica interna. «Il presidente che mantiene le promesse», è un messaggio rivolto ad alcune constituency americane che lo hanno portato alla Casa Bianca. In primo piano figura il magnate dei casinò di Las Vegas, Sheldon Adelson, e il suo amico Morton Klein che presiede la Zionist Organization of America, un gruppo ultraconservatore filo-israeliano. Adelson contribuì alla campagna elettorale e ora passa all’incasso sulla promessa che gli stava più a cuore. Oltre all’ala destra della comunità ebraica americana (ricca e generosa ma minoritaria, va ricordato: la maggioranza degli elettori Jewish-American sono di fede democratica, spesso ultra-progressisti), c’è il mondo degli evangelici. I fondamentalisti protestanti stravedono per Netanyahu, il loro allineamento con la destra israeliana è totale dai tempi di Bush Junior.

Sul terreno, in Medio Oriente, i primi a sfruttare il nuovo clima sono Vladimir Putin ed Emmanuel Macron, con due missioni diplomatiche parallele, chiaramente finalizzate a «sostituire» l’America. Colpisce l’ammirazione acritica con cui gran parte dei media osservano queste grandi manovre diplomatiche. Una delle conseguenze deleterie di Trump sembra essere quella di farci abbassare la guardia verso altri pericoli. È percepibile in tanta stampa occidentale un sottile compiacimento per l’avanzata di Putin in Medio Oriente. L’ammirazione sorvola su dettagli imbarazzanti. Putin che consolida il macellaio Assad, che rafforza gli autocrati liberticidi Erdogan e al-Sisi, viene circondato di rispetto come un gigante della geopolitica. Macron è ovviamente assai meglio di Putin, però anche su di lui sta nascendo un culto della personalità (da lui alimentato) sempre grazie alle credenziali anti-Trump. E tuttavia, dov’è finito l’europeismo di Macron? In Medio Oriente e in Libia lui porta la politica estera francese e gli interessi francesi, non quelli di un’Europa unita.

Scrivendo dalla mia America stordita e stremata per le nefandezze del suo presidente, mi permetto di segnalare la pericolosità di un nuovo conformismo. In cui sembra che «tutti gli altri» siano meglio di lui e che si debba gioire quando occupano i suoi vuoti di leadership. Mi sembra di sentire riaffiorare un antiamericanismo molto antico, che in Europa ebbe radici nell’estrema destra, nell’estrema sinistra, nella chiesa cattolica, nel gollismo, ecc. E pur essendo stato un ammiratore di Obama non concordo con chi oggi accusa Trump di affondare il processo di pace: quello era già morto da anni.

«Il ritorno di una Russia globale: capire l’agenda del Cremlino», è il titolo di un summit fra esperti americani indetto a Washington dalla fondazione Carnegie. Relatore principale è il massimo responsabile della strategia militare e della politica estera alla Casa Bianca, il generale McMaster (National Security Advisor). Il quale non ha dubbi: Putin sta preparando «la guerra di nuova generazione».

Il vicepresidente Pence, notoriamente legato alla destra religiosa, parte per un viaggio in Medio Oriente dove affronterà un’ostilità inattesa: quella dei cristiani. La sua visita è preceduta da duri attacchi (patriarca di Gerusalemme, autorità della chiesa copta) contro l’annuncio su Gerusalemme. È una realtà molto diversa da quella della destra evangelica americana che invece ha esultato per l’annuncio di Trump. Quest’ultimo intanto deve fare pressione sui sauditi perché non vendano ai cinesi una quota di Aramco. La quotazione in Borsa del colosso petrolifero saudita rischia di essere il cavallo di Troia per un’espansione dell’influenza di Pechino nel Golfo Persico. Tra quelli che si muovono per riempire il vuoto d’influenza americana in Medio Oriente non poteva mancare ovviamente la Cina, primo acquirente di petrolio arabo.

E dopo il terremoto-Gerusalemme il prossimo obiettivo della politica estera di Trump è l’Iran. La Casa Bianca teme il rafforzamento dell’influenza iraniana in Medio Oriente dopo la sconfitta dell’Isis (a cui hanno contribuito le milizie sciite appoggiate da Teheran). Ovviamente Israele e sauditi concordano.

 

Dove e quando

Federico Rampini terrà uno spettacolo teatrale/musical «Trump Blues o l’Età del Caos», il 20, 21 e 22 dicembre al Teatro Leonardo di Via Ampère a Milano. Tema della serata: capire le cause e il contesto della rivoluzione trumpiana di cui ogni angolo del pianeta sente le conseguenze.