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Lo strappo di Trump

Terzo e ultimo dibattito: Pesante autogol del tycoon di New York che ha minacciato di delegittimare la vincitrice. Come dire che Trump sente di avere già perso e l’esito del voto dell’8 novembre appare ormai segnato
/ 24.10.2016
di Federico Rampini

«Questa elezione è truccata. Non so se accetterò il risultato. Dipende. Ve lo farò sapere al momento giusto. Hillary non doveva neppure essere autorizzata a candidarsi». È la frase chiave di Donald Trump, quella che resterà come il passaggio decisivo nel terzo ed ultimo duello televisivo con Hillary Clinton. «È orribile. Non è così che funziona la nostra democrazia, Trump sta denigrando la democrazia americana», ha ribattuto la candidata di fronte allo strappo del suo rivale. Che minaccia un gesto senza precedenti: il rifiuto di concedere la vittoria non si era mai visto. 

Gli scambi iniziali erano scivolati via tranquilli, senza interruzioni. Sulla Corte suprema, dove è vacante da mesi un seggio dopo la morte di Antonin Scalia, perché i repubblicani si rifiutano di dibattere il candidato di Barack Obama. La Clinton ha promesso che in caso di vittoria nominerà un giudice disposto a cancellare Citizen United, la famigerata sentenza del 2010 che consente finanziamenti privati illimitati alle campagne elettorali. Trump invece ha garantito la nomina di un giudice che difenderà il Secondo Emendamento cioè il diritto alle armi. Lui si è dichiarato anti-abortista, lei ha detto che «non tocca ai governi decidere la scelta più difficile e dura che una donna deve fare, non dobbiamo diventare come la Cina o la Romania». Ciascuno ha parlato alle sue constituency, Trump ha fatto del suo meglio per rassicurare i repubblicani e la destra religiosa sulle sue credenziali di conservatore.

Sull’immigrazione Trump ha citato «quattro donne che sono nel pubblico a Las Vegas e hanno perso i loro figli uccisi da criminali immigrati». Ha detto che «non abbiamo più una frontiera, non abbiamo più una nazione». Lei ha raccontato di avere incontrato proprio a Las Vegas una giovane ragazza «terrorizzata all’idea che i suoi genitori possano essere deportati; io non spaccherò queste famiglie con le espulsioni di massa che minaccia Trump».

Lo scambio si è incattivito su Vladimir Putin. «Trump dica che condanna lo spionaggio russo, l’interferenza degli hacker di Mosca in questa campagna è inaccettabile». Lui non ha ceduto, anzi ha difeso il leader russo: «Putin ad ogni occasione si è mostrato più furbo di Obama e della Clinton. Preferisco andare d’accordo coi russi». Lei ha concluso: «Putin vuole un suo burattino come presidente degli Stati Uniti».

Sull’economia i due hanno ribadito ricette antagoniste: la Clinton propone politiche redistributive per finanziare gli investimenti pubblici e il diritto allo studio, lui punta su massicci sgravi fiscali alle imprese. Anche su questo terreno ci sono stati attacchi personali, con Trump ancora una volta a condannare il «peggiore trattato commerciale della storia, il Nafta firmato da Bill Clinton», e lei ad accusarlo di importare acciaio cinese per i suoi cantieri. Una delle accuse di Trump: «Sei al potere da 30 anni e non hai combinato nulla di buono, perché dovresti farlo adesso?» Lei gli ha rinfacciato le due carriere parallele: «Lavoravo al fianco di Obama per la cattura di Bin Laden, tu facevi il conduttore dello show televisivo The Apprentice». Poi di nuovo gli scandali sessuali, nove donne che accusano Trump di molestie, e lui che accusa: tutto falso, è Hillary ad averle istigate. Il contrattacco di lui, sulle 33.000 email nascoste dalla Clinton, e definisce la fondazione filantropica dei coniugi Clinton «un’impresa criminale». Lei elenca – ben oltre le donne – tutte le categorie che il tycoon ha offeso: ha insultato i genitori di un soldato musulmano morto al fronte con la divisa americana, ha sbeffeggiato i disabili, ha offeso un eroe di guerra come John McCain. «Sei dark, sei cupo, vuoi dividere gli americani, io voglio unirli. Ma lui è tornato a descrivere un’America dove l’esercito è a pezzi, la polizia non viene rispettata, i quartieri degradati delle nostre città sono un inferno». Per chi ha questa visione pessimista dell’America, Trump ha grinta e ferocia. Resterà però come il tratto saliente di questo dibattito lo strappo rispetto alla tradizione, la minaccia di non accettare il risultato finale. Se sarà lei a vincere, «la disonesta Hillary», naturalmente.

Vuol dire che Trump ha già perso, e si prepara a delegittimare la vincitrice? I sondaggi confermano questa interpretazione. La stessa Hillary l’ha avallata. Sul ring di Las Vegas la candidata democratica ha avuto una reazione sprezzante: «Donald è fatto così, quando il suo show televisivo The Apprentice non vinse gli Emmy Awards lui disse che il concorso era truccato». Un cattivo perdente, che già sta preparandosi una scusa per non ammettere la sconfitta. È la stessa tesi di Barack Obama: «Trump la smetta di piagnucolare, cerchi di convincere gli elettori, piuttosto». La condanna per lo strappo che nessun candidato aveva osato prima di lui si unisce a una sensazione rassicurante, che l’esito dell’8 novembre sia ormai segnato. È proprio così? Possiamo fidarci dei sondaggi?

A livello nazionale, anche tenendo conto dei voti di protesta «dispersi» sui due candidati libertario e ambientalista, il vantaggio della Clinton è salito a 7 punti percentuali. Un margine confortevole che coincide con una probabilità statistica di vittoria pari all’86% secondo FiveThirtyEight e al 90% nella rubrica Upshot a cura di Nate Cohn sul «New York Times». Non è una certezza, è una probabilità molto alta. Come si arriva a questi numeri? In America ormai si conducono e si aggiornano i sondaggi elettorali con una frequenza impressionante, escono molte decine di rilevazioni a settimana. Anziché scegliere uno o più sondaggi, i maggiori esperti li usano tutti insieme, in modo da compensare errori e squilibri degli uni e degli altri. I siti RealClearPolitics, FiveThirtyEight di Nate Silver, e Nate Cohn per il «New York Times», fanno questo lavoro di sintesi e bilanciamento in modo regolare e sofisticato. Alla fine ne estraggono la probabilità statistica di vittoria, che non va confusa col margine di scarto previsto nelle votazioni. Il verdetto è che da molte settimane Hillary ha allargato le distanze e una vittoria di Trump appare quasi come un «cigno nero», un evento altamente improbabile. È corroborato dall’analisi degli Stati-chiave, quelli che sono in bilico e di volta in volta possono votare democratico o repubblicano. Anche lì la Clinton avanza e Trump retrocede. 

È possibile che i sondaggi sbaglino tutti insieme? Questa domanda viene dibattuta da mesi fra gli esperti. L’interrogativo ruota attorno ad una possibilità: che una parte degli elettori di Trump sfugga alle rilevazioni. Vuoi perché non confessano la simpatia per un candidato così anomalo. Vuoi perché l’affarista newyorchese attira categorie che in passato non andavano a votare e quindi non sono ben rappresentate nei campioni demografici dei sondaggi. Proprio perché questi problemi vengono dibattuti da mesi fra gli esperti, si cerca anche di tenerne conto nelle proiezioni, quella di FiveThirtyEight in particolare comporta uno scenario corretto per introdurvi elementi extra-sondaggi. E la Clinton rimane favorita pure in quello. Dunque è verosimile che Trump denunciando l’elezione «truccata» sia convinto anche lui che le probabilità di vincere sono ormai esigue. Questo non attenua la gravità del suo gesto, un appello eversivo a rifiutare il responso di una consultazione democratica. 

 «Non ho mai visto, nel corso della mia vita e nella storia politica moderna, un candidato presidenziale che cerchi di screditare il voto e il sistema elettorale prima ancora che i cittadini vadano alle urne». Il severo giudizio di Obama si riferisce al colpo di piccone sferrato contro la tradizione, il costume civile, il rispetto delle istituzioni. Il linguaggio di Trump, come sempre, è apocalittico: «I brogli sono sistematici. Guardate Philadelphia, Chicago, Saint Louis. Succedono cose orrende». Segue, ad ogni comizio del candidato repubblicano negli ultimi giorni, un appello ai suoi seguaci perché vadano a vigilare ai seggi. Magari armati? In un’elezione già segnata da un grave degrado del linguaggio e del costume, ci manca solo che bande di esaltati vadano a presidiare i seggi in cerca del casus belli.

I brogli elettorali sono pressoché inesistenti negli Stati Uniti da molti decenni. L’ultimo caso significativo sembra essere accaduto nel lontano 1960 quando – forse – la vittoria di John Kennedy fu favorita dal sindaco di Chicago che fece «votare migliaia di morti». Dopo di allora le verifiche su irregolarità rivelano che siamo scesi allo zero virgola zero zero qualcosa per mille, episodi rari e irrilevanti. Unica elezione sospetta di irregolarità nei tempi recenti fu quella del 2000, quando un conteggio pasticciato in Florida, un intervento scorretto delle autorità locali (repubblicane) e una decisione molto controversa della Corte suprema (a maggioranza repubblicana) regalarono la Casa Bianca a George W. Bush. Nonostante le solide ragioni per opporsi, Al Gore fece un sacrificio per rispetto della democrazia: chiuse le polemiche rapidamente e riconobbe il vincitore. Quel gesto rimane emblematico di un Paese dove la fiducia comune verso la democrazia era considerata più importante della vittoria delle proprie idee. 

C’è un messaggio subliminale di Trump che non va sottovalutato. Bisogna rileggersi l’elenco delle tre città dove lui sostiene avvengano cose «orrende». Chicago, Philadelphia e Saint Louis hanno grosse minoranze afroamericane. Da sempre la destra, soprattutto la frangia razzista e fanatica del profondo Sud, quando denuncia «brogli» usa una parola in codice. Il vero significato va tradotto così: troppi neri che vanno a votare. In molti Stati del Sud è in corso da anni una sistematica offensiva per ostacolare l’iscrizione dei neri ai registri elettorali, accampando ogni sorta di cavillo burocratico. È un pezzo d’America che non ha digerito le battaglie per i diritti civili, Martin Luther King, la fine della segregazione negli anni Sessanta.