Che fosse un nostalgico della dittatura non l’aveva mai nascosto. Che fosse un custode attento degli interessi dei militari in Brasile, neppure. L’ex capitano di polizia Jair Bolsonaro, attuale presidente della repubblica brasiliana, ha sempre detto di essere quel che è, un militarista forsennato.
Ha anche pubblicamente elogiato la dittatura dell’ex tiranno del Paraguay, Stroessner, se non bastassero i ritratti di dodici personaggi di primo e secondo piano della giunta militare (1964-1985) tenuti per anni appesi nel suo ufficio di deputato a Brasilia. Nei 28 anni in cui è stato in parlamento, il 32% dei progetti di legge ai quali ha partecipato riguardavano interessi militari. Ha proposto in campagna elettorale un sistema di controllo forzato delle nascite tra la popolazione povera. Ha detto a una deputata che era «talmente brutta da non meritare di essere stuprata». Ciò non ha impedito a Bolsonaro di essere eletto con il 53% del voto popolare. Meno scontato era però che facesse davvero irrompere i militari nella vita politica brasiliana come diceva. E invece l’ha fatto.
Ha subito nominato ministri sette militari, più un vice militare anche lui. Mai dalla fine del governo militare s’era visto nulla di simile al governo del Brasile. Non solo. Ha lasciato che si addensasse un’area capace di esercitare influenza, quando non direttamente di gestire potere, tra giudici e militari. Un asse politico.
Basti guardare chi s’è scelto come consigliere: Antonio Dias Toffoli, il presidente della Corte suprema, nei fatti uno degli uomini più potente del Paese. All’inizio ha nominato come suo consigliere speciale il generale Fernando Azevedo e Silva, e quando il generale è stato chiamato a fare il ministro della Difesa, l’ha sostituito con un altro militare, il generale Ajax Porto Pinheiro, ex comandante delle truppe delle Nazioni unite ad Haiti.
Un altro militare ritirato, Alberto Santos Cruz, è stato indicato all’inizio del governo come coordinatore del consiglio di ministri per relazionarsi con il Parlamento. E quale deputato osa fare giochi politici durante qualsiasi negoziazione con il governo sotto gli occhi di un militare?
La percezione di una aumentata assenza di sicurezza ha negli ultimi anni gonfiato il consenso dei militari tra comuni cittadini. I militari sono anche stati cruciali nel gioco politico degli ultimi anni. Fu una notizia sorprendente anni fa ascoltare i comandanti dell’esercito dire all’allora presidente della repubblica Dilma Rousseff che si sarebbero rifiutati di eseguire gli ordini di intervenire contro manifestazioni di protesta. Altro momento di venuta allo scoperto della lobby militare nella vita politica recente è stato quando, poche ore prima che il Tribunale supremo decidesse se esonerare dalla detenzione l’ex presidente Lula da Silva (candidato favorito alle elezioni poi vinte da Bolsonaro), il capo dell’esercito, Eduardo Villas Bôas, ha twittato che la sua «forza ripudiava l’impunità». Il Tribunale supremo ha mantenuto in prigione Lula facendolo fuori dalle elezioni.
Tra i collaboratori del presidente Bolsonaro i militari sono decisivi dall’inizio. La prima nomina eminente fu quella del generale Antônio Mourão, quello che durante la crisi politica per l’impeachment dell’allora presidente Dilma Rousseff agognò un «intervento militarcostituzionale». Molto influente è stato il generale Augusto Heleno Ribeiro Pereira che si occupa degli apparati di sicurezza.
Un lavoro certosino della lobby militare riguarda tutte le norme sull’agrobusiness e sulla deforestazione dell’Amazzonia. Ha grande gelosia del dossier Amazzonia la casta militare, da sempre, e vede di pessimo occhio le ONG ambientaliste.
I legami del presidente Bolsonaro con i militari attivi e in riposo sono conosciuti e da lui rivendicati come fiore all’occhiello della sua affidabilità.
Perché il 53% degli elettori brasiliani l’ha votato? Perché lui ha promesso ordine e la maggioranza dei brasiliani è disposto a farselo dare da un ex militare dal linguaggio violento e razzista.
Il fenomeno Bolsonaro non è solo il risultato dell’esplosione dei vecchi partiti dopo le inchieste a tappeto sul finanziamento alla politica e la corruzione, non è solo la conseguenza del terremoto della classe dirigente per via giudiziaria. È anche l’espressione della finora inconfessabile voglia di un po’ di autoritarismo, di svolta a destra, che serpeggia da tempo nei tanti brasiliani, seppur silenti, che non si sentivano comodi nel lulismo. Quelli a cui non è mai andata giù del tutto quella legge per le quote riservate ai neri nelle università voluta dalla sinistra al governo, o quel 20% dei futuri posti nei concorsi pubblici da riservare a neri, o i nuovi diritti dei camerieri a domicilio previsti dalla civilissima quanto detestata legge per regolamentare il lavoro domestico (diritto a una giornata di lavoro non più lunga di otto ore, diritto alla retribuzione dello straordinario).
La promessa di ordine attraverso una repressione militare spiccia della delinquenza e la tolleranza totale per l’uso delle armi da fuoco garantita da Bolsonaro hanno fatto il resto. Alla maggioranza dei brasiliani oggi piace molto la frase di moda «l’unico bandito buono è il bandito morto».
Già l’ultimo Congresso era il più a destra della storia del Brasile. Già alle penultime elezioni i sindacalisti erano spariti dagli scranni dell’Aula lasciando il posto a un’orda di militanti evangelici ed ex militari di varie provenienze.
Il Parlamento in carica è per metà composto di debuttanti, eletti da formazioni nate da poco, sigle mai sentite prima, una trentina di partiti dalla ideologia indefinibile, ma quasi tutti di estrema destra. Un esempio per tutti: il Partito social liberale che ha candidato Bolsonaro (approdato al Psl dopo aver visto la sua candidatura rifiutata da altri a destra) nel 2014 aveva un solo deputato, oggi ne ha 52 (militari, poliziotti, un ex attore porno, un ex atleta olimpico, un’agente diventata famosa per un video in cui spara a un ladro o supposto tale). Il gruppo parlamentare principale rimane comunque quello del Partito dei lavoratori, con 56 deputati, ma non è in grado numericamente di contrastare il partito trasversale dell’ultradestra né di fronteggiare il lavaggio del cervello via social che la sua propaganda sa svolgere.
Il fatto drammatico è che nel Brasile iperconnesso, in cui gran parte della popolazione si informa solo tramite social network, le notizie vere e false che hanno accompagnato e continuano ad accompagnare le inchieste sulla corruzione e il finanziamento illecito ai partiti – a tutti i partiti, non solo al pt – finiscono per ribollire tutte insieme in una poltiglia indecifrabile dagli effetti tossici.
L’odio verso il pt, nel mezzo di una crisi economica che ha inviperito l’aspirante nuova classe media illusa nell’era lulista del boom (2003-2010) dalla possibilità di consumare di più e meglio benché a rate, s’è nutrito di questo clima ed è cresciuto andando ben oltre le responsabilità politiche e personali dei suoi dirigenti.
Si è diffuso al punto dal far digerire senza il minimo sussulto – al Brasile, ma anche al resto del mondo – il fatto clamoroso che il giudice Sergio Moro, dopo aver mandato in galera Lula, candidato favorito alle presidenziali secondo tutti i sondaggi, abbia accettato la nomina a ministro della Giustizia avuta da un presidente (Bolsonaro) che mai sarebbe diventato tale senza quell’arresto.