Far rimpiangere Boris Johnson sembrava impossibile, eppure c’è chi ci è riuscito. Dopo circa un mese a Downing Street, Liz Truss ha già regalato al mondo un esempio fulgido di quello che un leader di destra non deve fare: mostrarsi inaffidabile sui conti pubblici, terrorizzando i mercati, perdendo subito la fiducia dei ceti medi e mettendosi contro la Banca centrale. Dopo l’annuncio di spericolati tagli fiscali a favore dei più ricchi, la sterlina ha raggiunto i minimi storici nei confronti del dollaro e gli analisti raccontano di un Regno Unito alle prese con una crisi «da Paese emergente», non esattamente il tipo di gloria di cui sperava di coprirsi dopo la Brexit.
Una lezione che sembra ben presente nella mente dell’altra leader di destra del momento, Giorgia Meloni, uscita vittoriosa dalle elezioni italiane del 25 settembre. Abbastanza scaltra da farsi largo tra maschi affetti da sindrome della primadonna, Meloni sa che per imporre un’agenda conservatrice bisogna prima mettersi in condizione di governare e che per farlo la parola d’ordine è: credibilità. Per questo al Tesoro fin dall’inizio ha immaginato una personalità in grado di rassicurare gli osservatori internazionali, visto che il risultato elettorale di Fratelli d’Italia, un partito di estrema destra, è stato visto con preoccupazione ovunque. Soprattutto dopo una stagione di breve ma intensa stabilità come quella di Mario Draghi, della cui aura Meloni ha cercato di avvalersi, a Palazzo Chigi.
Truss è atterrata in un contesto ben diverso. Gli anni di Boris Johnson sono stati segnati da giravolte, scandali e una generale mancanza di affidabilità che ha portato il partito conservatore a liberarsene e a nominare un nuovo leader, preferendo la ex ministra degli Esteri, dallo stile arrembante e politicamente sfrontato, rispetto all’ex cancelliere dello Scacchiere Rishi Sunak e alle sue promesse di responsabilità sui conti pubblici. Nonostante tutti i suoi difetti, Johnson, che ha stravinto le elezioni del dicembre 2019, aveva un forte mandato popolare e nel suo programma non aveva mai immaginato misure avventate come un taglio dell’aliquota del 45% per chi guadagna più di 150mila sterline all’anno (ma non di quella del 40% per i redditi superiori a 50mila) oltre a una sforbiciata dell’1% dell’aliquota base dall’aprile prossimo. Un pacchetto da 45 miliardi finanziato a debito e con lo scopo di favorire la crescita, rispetto all’obiettivo, troppo a lungo perseguito secondo Truss, della ridistribuzione. Insomma, la famosa «Singapore sul Tamigi» di cui si era parlato a lungo durante il dibattito sulla Brexit, sta prendendo forma, con buona pace di chi pensava che l’uscita dall’Unione europea fosse una mossa tutta rivolta alla costruzione di una società più equa e giusta.
E quindi, superati gli undici giorni di politica sospesa a causa della morte della regina, Truss, che si vede come l’erede di Margaret Thatcher, insieme al suo cancelliere per lo Scacchiere Kwasi Kwarteng, ha presentato una mini-manovra che ha superato a destra tutti i sogni più audaci di qualunque ultraliberista. Ma lunedì 26 settembre, quando tutti si aspettavano che la vittoria di Giorgia Meloni avrebbe scosso i mercati, questi ultimi erano presi soprattutto dalla crisi britannica, con la sterlina in caduta a 1,03 nei confronti del dollaro, peggio di quanto fatto nel 1985. La fuga da sterlina e titoli di Stato hanno costretto le banche a ritirare le offerte di mutuo, con risultati tangibili fin da subito per i cittadini che speravano di potersi comprare casa grazie alla promessa di ridurre la tassa sugli acquisti immobiliari. Il Governo non ha ritenuto di dover fare un immediato dietro front, nonostante le critiche e l’intervento della Banca d’Inghilterra, decisa a proteggere la valuta e i fondi pensione con un programma di acquisto dei titoli di Stato da 65 miliardi, nonostante i rischi per l’inflazione.
Tutto questo sta avvenendo a poche settimane dall’insediamento di Truss, che ha ripreso a parlare alla stampa dopo un periodo di silenzio e che ha resistito agli appelli di una parte dei Tories di liberarsi del suo cancelliere Kwarteng, che invece sta raccogliendo gli elogi di quella minoranza ridottissima di «Brexiteers» oltranzisti per i quali la parola d’ordine è competitività, costi quel che costi. E pazienza se la vittoria di Johnson è stata possibile grazie alle conquiste in territori storicamente laburisti. Nella loro mini-finanziaria, Truss e Kwarteng hanno anche abolito il tetto ai bonus dei banchieri, sostenendo che così si allontanano i talenti e si favoriscono altre piazze finanziarie. Tutte cose che gli elettori, ammesso che l’attuale Governo duri fino alle prossime elezioni del 2024, non potranno non ricordare.
Proveniente dalla destra sociale, è difficile che Giorgia Meloni segua la stessa china, tanto più che ha il fiato sul collo di Bruxelles, un bottino ricco a cui attingere se non farà mosse avventate e un Paese con un debito pubblico esplosivo sempre potenzialmente nel mirino dei mercati. Per lei il banco di prova della credibilità internazionale è più che altro la politica estera. Proprio Liz Truss, al momento di fare le «congratulazioni a Giorgia Meloni per il successo del suo partito alle elezioni italiane», ha ribadito come «dal sostegno all’Ucraina all’affrontare le sfide economiche globali, il Regno Unito e l’Italia sono stretti alleati». Con due alleati decisamente comprensivi nei confronti di Vladimir Putin e una conclamata simpatia per il leader ungherese Viktor Orban, la guerra in Ucraina è un banco di prova enorme per Meloni, che sa di avere addosso gli occhi di Washington e di Londra e la richiesta di un’adesione compatta alla loro linea. Dal canto suo, Truss ha deciso di aumentare le spese militari del Regno Unito al 3% del Pil, con un’ulteriore spesa che va a sommarsi a quella legata al taglio delle tasse, nella costruzione del suo nuovo Regno Unito post-Brexit.
Ma i suoi progetti valgono quello che valgono se Truss non si guadagna la fiducia del Paese. Da leader non eletta, chiamata a sostituire un premier caduto in disgrazia in un momento di crisi economica per il Paese, che paga le conseguenze dell’isolamento dovuto alla Brexit, che non ha ancora trovato una soluzione stabile per il nodo dell’Irlanda del Nord e che deve vedersela come tutti con le conseguenze della guerra in Ucraina sul mercato dell’energia, ha fatto un passo più lungo della gamba, mettendosi da subito contro le istituzioni del Paese e quelle internazionali. Del suo cancelliere si diceva da anni fosse un genio, ma con una mente più accademica che politica, capace di strappi violenti e poco adatto al compromesso. Di lei si sa che ha saputo navigare in vari Governi senza subire scossoni e che l’ex spin doctor di Johnson, Dominic Cummings, la considera «la persona più vicina ad essere completamente matta tra quelle che ho conosciuto in Parlamento». «The Spectator», settimanale conservatore, li ritrae in copertina mentre sorseggiano i loro drink nel bel mezzo di uno scenario di crisi. Loro dicono che certi risultati hanno bisogno di tempo, anche se intorno a loro hanno creato una situazione di emergenza, di quelle che non lasciano tempo.