Il futuro delle migrazioni verso l’Europa si decide in Italia. Dopo la chiusura pressoché totale della rotta balcanica – quella che porta dalla Turchia all’Europa centrale via Grecia e Balcani – ed essendo quasi inesistente il flusso lungo il percorso occidentale dal Marocco alla Spagna, resta la decisiva via centrale, dalla Libia all’Italia. Oggi circa il 90% dei migranti e degli aspiranti rifugiati diretti verso i principali paesi europei si muove lungo questo percorso. La ragione è molto semplice: a differenza della Turchia e del Marocco, che fungono da freno naturalmente non gratuito dei traffici di esseri umani dal Sud al Nord del pianeta, la Libia non esiste più. E molto probabilmente non sarà ricostituita nel futuro prevedibile. Gheddafi è stato liquidato e al suo posto vi sono centinaia di milizie, ciascuna con i suoi interessi e la sua mancanza di scrupoli, tutte decise a lucrare sui migranti per conto proprio. Manca dunque un interlocutore con cui trattare le partite di scambio che invece limitano i flussi transmediterranei da est e da ovest.
Di qui la disperata ricerca da parte italiana, come anche francese, tedesca e di altri partner comunitari, di un referente sahariano o saheliano in grado di filtrare almeno parte delle persone in fuga dal loro ambiente di origine. Nella consapevolezza che dislivello socio-economico, conflitti endemici, demografia – tassi di fecondità quadrupli rispetto a quelli europei, età mediana dimezzata, se non più – e mutamento climatico ci assicurano della durata pluridecennale di tali flussi, destinati anzi ad ingrossarsi.
Per impedire che i migranti si affaccino in numeri sempre meno gestibili sulle coste mediterranee, il governo di Roma aveva immaginato, nel dicembre scorso, di offrire alla Tunisia forti incentivi economici e di status perché ne trattenesse almeno una quota, assorbendo in parte la via libica. La freddezza tunisina e la debolezza della posizione italiana hanno reso vano questo programma. Recentemente, l’Italia si è rivolta al Niger, dal cui hub di Agadez, che raccoglie i migranti e i profughi confluenti sia dall’Africa occidentale che dal Corno d’Africa, trascorrono ogni anno centinaia di migliaia di uomini, donne e bambini diretti a nord. Fino al punto che le Forze armate italiane hanno messo a punto un piano, battezzato Deserto Rosso, che implica lo schieramento di almeno 500 soldati in Niger, a supporto delle autorità locali – le quali sono peraltro implicate fino al collo nella gestione dei traffici di esseri umani. Sperando nel supporto tedesco e francese (quest’ultimo piuttosto improbabile, dato che il Niger è centrale nella geostrategia francese in Nord Africa, di fatto ancora imperiale).
Infine, Roma ha cercato di spingere alcuni esponenti di tribù del Fezzan – il Sud della Libia – ad assumersi la responsabilità di fare i guardiani del deserto, dietro compenso monetario. Con dubbi risultati, visto che quelle stesse tribù vivono in buona misura dei traffici che dovrebbero impedire.
Risultato: dal 1. gennaio a oggi i flussi transmediterranei verso l’Italia sono aumentati del 40% rispetto allo stesso periodo del 2016. Di questo passo, la soglia dei 181 mila arrivi, toccata lo scorso anno, verrà largamente superata. Il governo italiano considera quota 200 mila la linea rossa oltre la quale scatta l’allarme per la pace sociale e l’ordine nel territorio nazionale.
Di più: a causa dei più rigidi controlli sui migranti allo sbarco che francesi, svizzeri, austriaci e sloveni – con alle spalle la Germania – hanno imposto agli italiani, i quattro quinti dei migranti restano in Italia. Finendo nei circuiti del lavoro nero e del caporalato, gestiti dalle mafie. O trovandosi allo sbando nelle città e nelle campagne della Penisola.
Si capisce perché, vista dal Nord, l’Italia sia considerata una pericolosa pentola a pressione che rischia di implodere. Mentre prima era un collo di bottiglia attraverso il quale filtravano le persone che puntavano verso Svizzera, Francia, Austria, Germania o Scandinavia, oggi l’Italia è un paese obiettivo. Non per scelta di chi vi arriva, essendo sopravvissuto alla traversata del Mediterraneo, ma per l’estrema difficoltà di proseguire nel cammino prefissato. È come se sotto il profilo dei flussi Sud-Nord l’Italia fosse oggi quello che la Libia di Gheddafi era ieri.
Alle preoccupazioni degli altri europei si aggiungono quelle degli italiani, i quali non dispongono di strategie di integrazione degne di questo nome. Sicché l’accoglienza e la gestione dei migranti, richiedenti asilo compresi, è di fatto affidata a volontari, a strutture locali o alla Chiesa cattolica.
In una prospettiva di medio periodo, se l’Italia dovesse essere investita annualmente da flussi superiori alle 200 mila persone, questo provocherebbe un formidabile vantaggio politico per quelle formazioni xenofobe che guardano ai migranti come alla più seria minaccia all’identità nazionale. Tanto più considerando il declino della popolazione italiana, avviato dal 2015, che potrebbe significare una decrescita di circa 7 milioni di abitanti di qui al 2065. È evidente che senza correttivi questo metterebbe a rischio anche la sostenibilità del residuo sistema di welfare e provocherebbe una generale depressione economica, al netto delle conseguenze politiche e istituzionali.
Sotto questo profilo, l’Italia ha una grave responsabilità anzitutto verso se stessa, ma anche verso i partner europei. La destabilizzazione dello Stivale significherebbe spostare le frontiere del caos dal Canale di Sicilia alle Alpi. O forse oltre.