«Quando arriva la bassa marea si scopre chi stava nuotando senza il costume da bagno». Se non l’ha coniata lui, di sicuro questa metafora l’ha usata più volte Warren Buffett, il leggendario «nonno» degli investitori americani. Ci siamo: sta arrivando la bassa marea, questo significa che scopriremo presto chi nascondeva le proprie debolezze grazie a condizioni eccezionalmente facili. Gli attori deboli includono famiglie, imprese o intere Nazioni ad alto debito. Il cambio di paradigma è già in corso negli Stati uniti: cambiano il segno simultaneamente sia la politica monetaria sia la politica di bilancio. È finita, almeno per un po’, l’epoca del denaro facile che ha condizionato molti comportamenti e ha attutito molti problemi. Non solo i tassi d’interesse salgono, ma si ritira quella esondazione di moneta che ha sommerso l’economia dal 2008 ad oggi.
Gli europei possono illudersi che la cosa non li riguardi? Sarebbe imprudente. L’esperienza passata indica che l’Europa tende a seguire le tendenze americane, solo con un po’ di ritardo. Già Londra ha mostrato la strada visto che la sua banca centrale gioca d’anticipo e rialza i tassi prima ancora della Fed. Nell’immediato almeno l’Europa continentale può godersi qualche beneficio: l’euro s’indebolisce visto che sono i rendimenti americani i primi a salire; è un bene per gli esportatori italiani e non solo. Ma ben presto il cambio di paradigma avrà altre conseguenze sull’economia mondiale. Dal debito di una famiglia a quello di un’impresa decotta o dello Stato italiano, molti dovranno fare i conti con la nuova stagione che si annuncia.
La fotografia della situazione globale risente ancora dell’alta marea che è stata con noi per tutto l’anno scorso. Il Pil americano ha chiuso il 2021 con un aumento del 5,7%. Una crescita così forte si verificò l’ultima volta nel 1984 sotto il primo mandato presidenziale del repubblicano Ronald Reagan. Ma contemplare quella crescita record nello specchietto retrovisore non ci aiuta a capire né il presente né il futuro. Quel boom – che ha consentito di ricreare 19 milioni di posti di lavoro sui 22 milioni distrutti nel 2020 durante la prima fase della pandemia – era figlio di due politiche economiche eccezionali. La politica di bilancio ha riversato nell’economia americana 5000 miliardi di spesa pubblica, in gran parte aiuti alle famiglie (anche al ceto medio). La politica monetaria, oltre a mantenere il costo del denaro ai minimi storici, ha pompato liquidità con gli acquisti di bond da parte della banca centrale.
Oggi la Federal reserve ha «nella sua pancia» 8900 miliardi di dollari di titoli, in cambio dei quali ha fornito altrettanta moneta all’economia reale. Siamo stati per 14 anni le cavie di un esperimento senza precedenti. Da quando ebbe inizio la crisi del 2008, l’America ha reagito con innovazioni inaudite nella sua politica monetaria (poi è stata copiata dal resto del mondo, Bce in testa). La strategia usata da Ben Bernanke, presidente della Fed nel 2008, e proseguita dai suoi successori, senza dichiararlo mescolava due dottrine molto eterogenee o addirittura antagoniste: da una parte il monetarismo di Milton Friedman (neoliberista di destra), dall’altra la Modern monetary theory che piace a Bernie Sanders e all’estrema sinistra. Non entro nei dettagli ma la sostanza è che la Fed pur di rianimare un malato terminale – l’economia stremata del 2008 – iniziò a usare l’arma monetaria con un vigore senza precedenti, rovesciando liquidità con l’acquisto dei bond. Mai le banche centrali avevano «stampato» così tanta moneta, neppure in tempi di guerra (naturalmente l’immagine dello stampare è una metafora, visto che la moneta si genera virtualmente nei bilanci digitali delle banche).
Dopo averlo anticipato già da qualche mese, nel marzo di quest’anno l’attuale presidente della Fed Jerome Powell decreterà nei fatti che «la ricreazione è finita». La banca centrale più potente del mondo cesserà di immettere nuova moneta, anzi ben presto comincerà a ritirare gradualmente quella che aveva creato nei 14 anni precedenti. In più alzerà il costo del denaro. È la marea che si abbassa. Chiunque abbia bisogno di credito lo pagherà sempre più caro, via via che i tassi si alzeranno. È il modo in cui la banca centrale spera di domare un’inflazione che ha già toccato il 7% alla fine del 2021. Generazioni di adulti non hanno mai conosciuto né un’inflazione così alta, né la «cura monetaria» dei tassi d’interesse in forte risalita che si profila all’orizzonte. Dalla spesa con la carta di credito alle ipoteche per la casa, alle formule di pagamento rateale per le auto o l’arredamento, tutto costerà più caro. Ripeto, per adesso questa sterzata è americana, ma è improbabile che prima o poi non contagi l’Europa. L’inflazione dell’Eurozona pur essendo meno forte di quella americana ha comunque toccato un record a quota 5,1%. Del resto il Fondo monetario già prevede un rallentamento della crescita ovunque, nel 2022: America, Cina, Europa. È implicito il fatto che a questo rallentamento, almeno in America e in Europa, contribuiranno delle politiche monetarie più restrittive.
Il cambio di paradigma monetario coincide con lo stesso tipo di capovolgimento nella politica di bilancio. Per contrastare la recessione da pandemia Trump e Biden avevano rovesciato quei 5000 miliardi di cui sopra nelle tasche dei cittadini e nei bilanci delle imprese: uno sforzo equivalente alla spesa bellica nella seconda guerra mondiale. Ma adesso «la ricreazione è finita» anche qui. Non ci saranno altre manovre di spesa di quelle dimensioni, al massimo qualche mini-spesa, da qui alle elezioni di metà mandato tra nove mesi. La fine della spesa pubblica facile si comincia già a vedere nei bilanci delle famiglie. I salari continuano a crescere soprattutto nelle mansioni basse, ma i risparmi stanno già decrescendo. E l’inflazione si mangia una parte degli aumenti salariali.
Se stiamo facendo le prove generali per un remake degli anni Settanta, ricordiamoci che allora la spirale inflazionistica traduceva un forte conflitto distributivo. Era un periodo di mobilitazioni sindacali, scioperi, lotte sociali. Capitalisti e lavoratori si contendevano la ricchezza nazionale, ciascuno cercava di aumentare la propria quota. Nel braccio di ferro tra profitti e salari, l’inflazione era il termometro della tensione. Oggi qualcosa di simile è stato scatenato dalla pandemia, che ha creato scarsità di manodopera e ha migliorato il potere contrattuale dei dipendenti. Il meccanismo è questo: grazie ai sussidi abbondanti i lavoratori americani hanno avuto un cuscinetto di risparmi che ha consentito loro di diventare più selettivi, rifiutando proposte di lavori troppo faticosi o non abbastanza pagati. Questo ha costretto le aziende ad alzare i salari, in maniera più accentuata per le mansioni meno qualificate. La banca centrale interviene sull’inflazione in modo indiretto: il rincaro del costo del denaro riduce il potere di spesa, raffredda la domanda, nel caso estremo può perfino provocare una recessione. Non sappiamo se sul versante sociale il finale sarà eguale a quello degli anni Settanta. Allora stravinse il capitale, con il neoliberismo reaganiano s’inaugurò un’epoca di bassa inflazione, alti profitti.