Con i dati di fine anno pubblicati in Europa si può vedere che il tasso d’inflazione (dopo quello degli Stati Uniti) sta leggermente scendendo. Questo permette ai maggiori interessati (banche centrali e Governi compresi) di prevedere tassi d’inflazione per il 2023 perlomeno inferiori a quelli del 2022. Così come per le recenti fiammate dei prezzi, anche i cali attuali e prevedibili sono dovuti essenzialmente ai costi dell’energia. Costi che, nel calcolo del rincaro, erano saliti al 41,5% in ottobre, ma che sono ora scesi al 25,7%. All’inizio del nuovo anno il gas e il petrolio hanno visto i prezzi scendere ulteriormente di un 10% circa. La notizia ha rallegrato molti esperti del settore che però guardano con una certa prudenza ai nuovi dati. Infatti, mentre la situazione continua a rimanere molto tesa a causa del conflitto russo-ucraino, il calo dei prezzi è dato essenzialmente da una diminuzione della domanda, a sua volta dovuta a un inverno fin qui molto mite e alla costituzione d’importanti riserve da parte dei maggiori consumatori, nonché alla decisione europea di fissare un prezzo massimo per il gas importato dalla Russia e ai numerosi contratti conclusi con importanti produttori di energie fossili.
I motivi per un tasso d’inflazione che non potrà scendere oltre certi limiti possono essere visti nel fatto che alcuni settori dell’economia, come i trasporti e il turismo, utilizzano ancora molta di questa energia. Anche i costi delle materie prime rimangono alti, per cui tante imprese sono costrette ad aumentare i prezzi dei beni e servizi prodotti. Questo in un momento in cui la fine delle restrizioni, dovute alla pandemia da Covid, ha provocato un notevole incremento della domanda. Fattori che hanno favorito un aumento dei salari, che a loro volta contribuiranno a un aumento dei costi in tutti i settori dell’economia.
Fattori che rendono difficile una previsione per l’inflazione che ci accompagnerà nel 2023. In Europa la Banca Centrale (BCE) resta fedele al suo obiettivo di ridurre il tasso d’inflazione al 2,3% nel 2024, ma probabilmente il tempo necessario sarà più lungo. Infatti i responsabili della BCE prevedono, accanto all’influsso del calo dei prezzi dell’energia, anche quello di un eventuale secondo round dell’inflazione. I motivi citati sopra potrebbero infatti spingere i prezzi al consumo verso l’alto e limitare così l’impatto positivo del calo dei prezzi dell’energia. Vi sono però anche Paesi che non riusciranno a scendere molto sotto i livelli registrati a fine anno. L’Italia, per esempio, deve contare su un rincaro dell’11,6%, la Germania del 12,3%, mentre Francia e Spagna potranno ridurre la media europea grazie al 6,7% e rispettivamente il 5,6%.
Più vicina all’obiettivo europeo è invece la Svizzera che, con il 2,8% per l’anno 2022, può contare su un invidiabile primato, perfino con l’indice dei prezzi al consumo che, nell’ultimo mese dell’anno, è diminuito dello 0,2%. È senz’altro un buon segno, ma è un anticipo di quanto potrebbe avvenire nel 2023? La maggior parte delle previsioni sono positive, almeno per quanto concerne la media annuale dei rincari mensili. È infatti probabile che nei primi mesi si possa assistere a qualche rialzo dei prezzi al consumo in alcuni Paesi. La BCE prevede per l’Unione Europea un rallentamento dell’inflazione, in modo da raggiungere un rincaro medio per il 2023 che potrebbe essere ancora del 9,2%. Vi saranno comunque Paesi con tassi superiori (Italia e Germania per esempio) e altri con tassi più bassi.
L’ottimismo delle ultime previsioni in materia è dovuto ai prezzi del gas combustibile che sono scesi a livelli inferiori a quelli di prima dell’attacco russo all’Ucraina. Tuttavia il mercato del gas e anche quello del petrolio sono molto volatili e non si possono escludere nuove impennate dei prezzi, almeno fino al «tetto» fissato dall’UE. In prospettiva più lunga si deve notare che tutti i Paesi stanno cercando (e trovando) fonti alternative, i cui prezzi saranno però superiori a quelli di questo inizio d’anno. Una valutazione non può però prescindere da almeno due altri fattori: l’eventuale recessione dell’economia europea e le politiche monetarie delle banche centrali. Un sostegno diretto o indiretto alla congiuntura provocherà inevitabilmente spinte inflazionistiche. Qui si ripresenta il dilemma se continuare la politica di rialzo dei tassi guida o se mettere in atto almeno una pausa, in modo da non restringere troppo la domanda, ma – come detto – correndo il rischio di un sostegno all’inflazione.
Anche la Svizzera si trova confrontata con problemi analoghi, ma con una situazione di partenza molto migliore di quella di altri Paesi. La Banca Nazionale Svizzera ha dato avvio, come le altre banche nazionali, a una politica del rincaro del denaro, che finora non sembra aver avuto effetti negativi sulla congiuntura. Come noto la Svizzera dipende molto dalle sue esportazioni e anche dalle sue importazioni. L’apparato produttivo si trova pure confrontato con problemi di scarsità di materie prime e di semilavorati, e quindi di aumenti dei prezzi. Ancora una volta la barriera migliore contro il pericolo di importare l’inflazione è la forza del franco svizzero sui mercati valutari.
Finora – e contrariamente ai molti timori – il livello di cambio del franco svizzero non sembra aver danneggiato né la produzione industriale, né il turismo. La BNS potrà quindi proseguire nella politica di aumento dei tassi di base, ovviamente tenendo conto anche di quanto faranno le altre banche centrali. La situazione d’inizio anno apre quindi buone prospettive per quanto concerne l’inflazione. Il tasso attuale è molto vicino a quello che potrebbe riportare un po’ di ordine nei mercati del denaro e dei capitali, con tassi di interesse in rialzo e non più vicini allo zero, come avvenuto negli ultimi tempi. La BNS deve comunque tenere un occhio vigile sui prezzi interni. Cresciuti dell’1,7% in novembre, sono aumentati del 2% in dicembre. Questo significa – e lo si vede bene nei generi alimentari – che i prezzi svizzeri risentono comunque dell’inflazione che accompagna i beni importati.