«Esprimo vicinanza alle migliaia di migranti, rifugiati, e in generale a tutte le persone che hanno bisogno di protezione in Libia». Sono parole di Papa Francesco, pronunciate durante l’Angelus della settimana scorsa. Parole cui ne fanno seguito altre, ancora più dure, tese a scuotere coscienze intimidite, o peggio addormentate: «Non dimentico gli uomini, le donne e i bambini sottoposti a violenze insensate e disumane – ha detto il Pontefice – sento le vostre grida».
Non è la prima volta che Papa Francesco esorta i governi a favorire i corridoi umanitari, stavolta però le sue parole veementi sono ancora più significative perché il destino delle persone migranti in Libia sembra essere sparito dai radar del dibattito pubblico europeo. Il fenomeno migratorio, i pericoli cui vanno incontro migliaia di vite nel Mediterraneo Centrale sembra non essere più un tema infuocato come pochi mesi fa, non è più il fuoco delle campagne elettorali e, di conseguenza, smette di essere anche al centro della discussione pubblica. Eppure dall’altra parte del Mediterraneo non si smette di soffrire, così come non si smette di morire in mare.
Negli ultimi tempi, inoltre, in Libia si stanno verificando fenomeni molto preoccupanti, a partire da un mese fa quando, secondo l’UNHCR, l’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, le autorità libiche hanno condotto dei raid e degli arresti arbitrari in aree densamente popolate da rifugiati e richiedenti asilo.
Secondo le ricostruzioni delle organizzazioni internazionali, tra cui Human Rights Watch, gruppi armati e unità di polizia legate al Ministero dell’Interno del governo di unità nazionale (GNU) di Tripoli, hanno fatto irruzione intorno all’area di Gergaresh, dove vivevano molti migranti africani e richiedenti asilo, il 1° ottobre e nei giorni successivi, presumibilmente per interrompere le reti di droga illecita, arrestando almeno 5000 persone, tra cui donne e bambini e richiedenti asilo e rifugiati registrati dall’UNHCR.
Nel corso dei raid sono morte almeno sei persone e migliaia sono state ricondotte in prigione, negli ormai tristemente noti centri di detenzione gestiti dal Ministero dell’Interno di Tripoli, dove le persone migranti denunciano di subire torture e estorsioni alle famiglie per ottenere un riscatto. L’UNHCR ha chiesto con urgenza un intervento, è solo l’ennesimo appello, senza equivoci, e senza sconti, come i precedenti: le Nazioni Unite affermano che il governo libico debba affrontare la terribile situazione in cui sono costretti a vivere richiedenti asilo e rifugiati e apporta prove di crimini contro l’umanità commessi ai danni di migranti intercettati in mare da motovedette finanziate dall’Europa e ricondotti in Libia.
Anche Amnesty International tre mesi fa ha riferito che i dieci anni di violazioni cui abbiamo assistito dopo la caduta del regime di Gheddafi continuano tuttora, e che anche durante tutto il 2021 i crimini contro i migranti sono continuati senza sosta, nonostante le ripetute promesse di affrontarli da parte delle autorità libiche.
A ulteriore conferma della ferocia che i migranti subiscono nei centri di detenzione, due settimane fa il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha inserito sulla lista delle sanzioni uno dei capi del traffico di uomini di Zawhia, Libia occidentale, che era anche a capo del centro di detenzione locale, dove decine di persone sarebbero state vittime di violente torture e decine sarebbero state uccise: Osama al Kuni Ibrahim viene descritto dalle Nazioni Unite come il «gestore di fatto» del centro al Nasr e gli abusi perpetrati dal suo clan definiti «gesti di orribile natura».
La sua figura e l’ambiguità delle funzioni che ricopriva – da un lato dipendente del Ministero dell’Interno e gestore del centro di detenzione, dall’altro leader di fatto del traffico di uomini locale – sono la sintesi perfetta del funzionamento dei traffici illeciti in Libia e dell’opacità del controllo statale e governativo, tanto che tra le motivazioni delle sue sanzioni si legge che Osama al Kuni è a capo dello «sfruttamento sistematico dei migranti africani nel centro di detenzione». È così, semplicemente, che funzionava e funziona.
Osama al Kuni fa parte dello stesso clan di due dei trafficanti di uomini più ricercati del paese, Abdel-Rahman Milad, detto Bija, e del leader della milizia, il cugino Mohammed Koshlaf, che in quella zona gestisce anche il traffico di carburante e gli ospedali privati. Tutto in quella zona è gestito dal clan Koshlaf, e tutto si lega: petrolio, esseri umani, soldi pubblici e anche, naturalmente, fondi europei.
Dopo il raid e gli arresti arbitrari più di duemila richiedenti asilo e rifugiati che sono riusciti a scappare agli arresti, si sono accampati di fronte al Daily Center delle Nazioni Unite a Tripoli.
Le baracche in cui vivevano sono state distrutte dalle autorità libiche e oggi hanno bisogno di riparo, cibo e medicine. Vivevano tutti nella zona di Hai al Andaluos, quella particolarmente colpita dagli arresti, le autorità hanno giustificato la violenza dell’azione sostenendo che volessero sgominare una potente rete criminale. Qualunque fosse la ragione oggi migliaia di persone restano senza un tetto e senza mezzi per sostentarsi e per di più esposti al rischio di essere prelevati dalla strada con la forza dai trafficanti e ricondotti nel gorgo del traffico di uomini.
Human Rights Watch ha denunciato la condotta delle autorità libiche: «con la demolizione dei rifugi di fortuna dei migranti e richiedenti asilo – ha affermato Hanan Salah, direttore per la Libia di Human Rights Watch, in un comunicato dopo i raid – le autorità libiche hanno creato una crisi umanitaria lasciando migliaia di persone per le strade. La Libia e gli Stati europei dovrebbero rispondere con urgenza a questa situazione in rapido deterioramento poiché le persone sono esposte alla violenza e mancano di qualsiasi aiuto di base per i loro bisogni primari».
Un richiedente asilo originario del Sud Sudan ha dichiarato che i gruppi armati e i funzionari del Ministero dell’Interno hanno circondato il quartiere con veicoli blindati e armi pesanti terrorizzando donne, uomini e bambini e che i pochi che sono riusciti a scappare sono rimasti nascosti per giorni tra gli arbusti vicino al mare per paura di essere scovati, bevendo acqua di mare per dissetarsi.
Oggi il centro diurno di UNHCR è chiuso per ragioni di sicurezza e le migliaia di rifugiati senza dimora non ricevono assistenza da parte di nessuna organizzazione, i pochissimi aiuti giungono solo da privati cittadini. Non hanno accesso ai servizi igienici e non hanno modo di ripararsi dalla pioggia e dal freddo.
Molti di loro – riferiscono i pochi operatori umanitari locali che li hanno incontrati – hanno sul corpo segni di arma da fuoco, segni di torture, ossa fratturate, ferite da colpi traumatici alla testa.
L’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, dal canto suo, è in difficoltà. Le sue azioni sono ostacolate dalle restrizioni imposte dalle autorità libiche, e dalla mancanza di una reale volontà da parte dei paesi europei di trovare soluzioni reali sulle evacuazioni.