L’India contro una legge discriminante

Citizen Amendment Act – Secondo il nuovo provvedimento non vengono più garantiti i principi di inclusività. Solo i rifugiati hindu, parsi, jain, sikh, cristiani o buddhisti otterranno la cittadinanza indiana. I musulmani no
/ 23.12.2019
di Francesca Marino

L’India brucia. Brucia dall’Assam a Kolkata, da Hyderabad a Varanasi. Ma, soprattutto, brucia la capitale, Delhi. E l’incendio non accenna a spegnersi. La scintilla che ha fatto detonare proteste e relative violenze è stata la promulgazione, da parte del governo Modi, del Citizen Amendment Act, una nuova legge sulle procedure per concedere la cittadinanza indiana ai rifugiati provenienti da paesi limitrofi. Secondo la nuova legge, verrà garantita una corsia preferenziale ai rifugiati di religione hindu, parsi, jain, sikh, cristiana o buddhista, perseguitati nei loro paesi d’origine. Per i musulmani, si deciderà caso per caso. La decisione del governo ha scatenato proteste un po’ dappertutto e per diversi motivi. Secondo le opposizioni, la legge viola difatti i principi di laicità e di inclusività della Costituzione indiana, spazza via secoli di tradizione e soprattutto fa parte di un piano ben definito per emarginare i musulmani in India e consegnare la nazione nelle mani dei suprematisti hindu.

Il governo ha chiarito che la legge non si applica in alcun modo ai cittadini indiani, che riguarda soltanto i rifugiati che da anni vivono in India e che fino a questo momento non potevano ottenere la cittadinanza, e che è un modo per «aiutare coloro che hanno subito anni di persecuzioni in patria e non hanno alcun posto in cui andare tranne l’India». Escludere i musulmani, però, e quindi i Rohingya o gli Ahmadi che in patria subiscono persecuzioni quanto se non di più dei cristiani o degli hindu, non depone proprio benissimo. 

Soprattutto perché il nuovo Citizen Amendment Act va di pari passo con l’istituzione del National Register of Citizens: una lista cioè di persone che si trovano «illegalmente» in India e che, per rimanere, devono provare di essere entrate in India prima della creazione del Bangladesh, nel 1971. Sempre secondo le opposizioni, i due provvedimenti sono collegati, tanto che l’implementazione del NRC è stata rimandata perché avrebbe colpito molti induisti che invece con il CAA possono rimanere nel Paese.

Le proteste sono cominciate nel Nord-Est, e nello Stato dell’Assam: non a causa della discriminazione religiosa, ma perché i cittadini dell’Assam protestano da anni contro le migliaia di rifugiati e di immigrati illegali, per la maggior parte provenienti dal Bangladesh, che si trovano nella regione. In sostanza, i cittadini dell’Assam non vogliono immigrati e rifugiati di nessun tipo e di nessuna religione, e detestano i «bengali» che minacciano la loro «cultura e tradizioni». Le proteste in Assam hanno provocato quattro morti, di cui due adolescenti. 

Sono seguite proteste a Kolkata e un po’ in tutto il Bengala, per motivi simili. E infine sono scesi in piazza gli studenti della prestigiosa università Jamia Millia Islamia di Delhi, per protestare contro la discriminazione di tipo religioso nei confronti dei migranti. La polizia è intervenuta e in pochissimo tempo si sono viste scene degne del famoso G7 di Genova. Le proteste si sono trasformate in scontri, sono volati sassi, molotov, lacrimogeni e quant’altro. La polizia è entrata dentro all’università picchiando a sangue gli studenti fino a dentro i bagni, nella biblioteca e nei dormitori. Non ci sono stati morti soltanto per puro caso. 

Per solidarietà con gli studenti della Jamia sono scesi in piazza gli studenti delle maggiori università del Paese, ci sono stati altri scontri e altri feriti, e l’incendio non accenna a placarsi. Soprattutto perché le proteste, come sempre succede, sono state cavalcate e trasformate in qualcosa di completamente diverso dai soliti di buona volontà. Secondo gli studenti della Jamia, dentro all’università si sono introdotti e infiltrati altri che studenti non erano. Altri che si sono dedicati, alla Jamia e in tutta Delhi, a dare alle fiamme autobus e autovetture, a sfondare vetrine e recinzioni. I Black Block locali, insomma. La polizia però non ha fatto distinzioni e ha caricato indistintamente tutto ciò che si muoveva attorno a loro. Ragazzi e ragazze inermi e terrorizzati, che scappavano e chiedevano aiuto. 

Nella notte mezza Delhi, con candele e torce, ha improvvisato una veglia portando cibo e coperte alle vittime. D’altra parte, dice il governo, ci sono trenta poliziotti finiti all’ospedale, qualcuno in gravi condizioni. Molti quartieri di Delhi, quartieri residenziali, sono stati vittima di «dimostrazioni spontanee» a base di vetri sfondati e macchine distrutte. 

L’opinione pubblica è divisa esattamente a metà. E le proteste vengono pilotate e cavalcate da gente che non ha nulla a che fare con l’università e molto con gli slogan jihadi e il terrorismo. O con la malafede. I primi dieci arresti effettuati sono difatti a carico di individui con pesanti precedenti penali. L’India chiede una commissione di inchiesta sul comportamento della polizia e, soprattutto, una revisione del CAA da parte della Corte Suprema. Ma forse non basterà. Perché il problema vero al momento è la polarizzazione delle parti politiche e la quantità di notizie e commenti, veri o falsi, da entrambe le parti, che circolano sui social media e in televisione e che avvelenano il dibattito politico.

Anzi, il non dibattito. Perché le discussioni, e anche la politica del governo, invece di focalizzarsi sui temi caldi per il Paese, come l’economia in ribasso e la mancanza di posti di lavoro, sono sempre e soltanto centrate su «pro-musulmano, anti-musulmano». Centrate sulla vera o presunta agenda nefasta del secondo governo Modi e sulla sua volontà di far diventare l’India una nazione hindu. Di convalidare cioè la cosiddetta «teoria dei due Stati» tanto cara a Jinnah che ha portato alla creazione del Pakistan. 

Pakistan che ha dichiarato, per inciso, di non essere affatto disponibile ad accogliere eventuali rifugiati di religione musulmana, provenienti dall’India o da altri Stati limitrofi. La verità è che la politica, come spesso accade, si gioca sulla pelle dei poveri. Che il rifiuto dei cittadini assamesi e bengali di accogliere gente proveniente dal Bangladesh è dettato dalla mancanza di posti di lavoro non specializzato. Che ciascuno ha paura di perdere quella particella di sia pur piccolissimo privilegio guadagnato per nascita o con il lavoro. La verità è che i politici, incapaci di combattere in Parlamento a suon di proposte di legge, cavalcano e soffiano sullo scontento di migliaia di poco più che adolescenti mandati come carne da macello a scontrarsi con poliziotti troppo zelanti, per usare un eufemismo. Senza pensare che fomentare l’odio sociale o religioso, come accade ormai da troppo tempo in India, può generare mostri destinati a sfuggire al controllo dei loro creatori. 

La faccenda non riguarda un provvedimento sugli immigrati, non riguarda il Kashmir, non riguarda nemmeno il verdetto sul tempio distrutto di Ayodhya: riguarda l’intera struttura sociale, culturale ed economica dell’India. Che andando avanti così rischia di trasformarsi in brevissimo tempo, in tutto ciò che aborre: il Pakistan.