Bicarbonato nei fazzoletti per non essere asfissiati dai gas lacrimogeni e succo di limone per proteggere gli occhi. Non sembrerebbe esattamente il kit di navigati professionisti della guerriglia urbana con ricca logistica e capillare organizzazione alle spalle, come ha sostenuto dopo i primi giorni della rivolta cilena il presidente cileno Sebastian Piñera. Eppure è questo il contenuto base degli zainetti dei ragazzini (adolescenti in gran parte) che hanno messo a ferro e fuoco Santiago e Valparaiso.
Contro di loro sono schierati novemila soldati a difesa del coprifuoco dichiarato dal governo. È la prima volta dalla fine della dittatura militare che in Cile si riesuma la dichiarazione del coprifuoco, considerata finora intollerabile per i mostri che evoca e per la forza di intimidazione che esercita.
Tutti i governi che si sono succeduti dal 1990 ad oggi si sono guardati bene dall’usarla anche di fronte a problemi seri di ordine pubblico. Dire coprifuoco in Cile è come dire Augusto Pinochet. E non è il massimo della disponibilità alla soluzione politica, tantomeno al dialogo, far aleggiare sulla testa di chi protesta, violentemente e non, il fantasma di un dittatore che ha saputo tenere in scacco nel terrore il Paese durante (e anche dopo) i diciassette anni terribili del suo regime.
Il coprifuoco non pare nemmeno essere utile a disinnescare la protesta. Al contrario. Considerato dai più una provocazione, una sfida, una dimostrazione di cecità politica, ha convinto molti a rimanere in strada sfidando le pallottole. Le manifestazioni continuano. Sia quelle pacifiche, sia quelle violente. Anche nei quartieri residenziali è scesa gente in strada negli ultimi giorni. Persino a Los Condes, zona benestante di Santiago dove vivono per lo più dirigenti d’aziende straniere e medio alta borghesia locale, una pacifica riunione in strada di residenti è stata dispersa con spari in aria della polizia. Raccontano da lì che l’altro giorno tre colf asserragliate dietro uno dei portoni a specchio di un condominio di lusso de Los Condes commentavano sorprese in un sussurro: «Finalmente non sparano solo a casa nostra». È questa l’altra faccia della rabbia sociale, della separatezza, dell’illusorietà del «modello cileno» che garantisce sì una crescita del 2,5% anche quest’anno, ma che la lascia godere soltanto a pochi fortunati sorretti dal lavoro sottopagato e senza garanzie di tutti gli altri.
Piñera, dopo quattro notti di coprifuoco, deve aver capito che doveva cambiare passo. E intanto ha cambiato tono. Ha pubblicamente ammesso che «ci sono problemi che si vanno trascinando da tanto tempo» ed è arrivato a chiedere «scusa per questa assenza di visione». Che non è frase da poco. Ha poi annunciato un pacchetto di emergenza di un milione di euro che prevede un salario minimo garantito di 450 euro per chi lavora ad orario completo e una imposta per rendite superiori ai diecimila euro al mese. Il caro prezzi, per ora, è sospeso.
Quando chiudiamo questa edizione sono almeno 15 i morti accertati nella rivolta di strada che sta infiammando il Cile, 1333 detenuti dichiarati e 88 feriti da arma da fuoco. La Cut, il principale sindacato nazionale, ha dichiarato una giornata di sciopero generale alla quale ha aderito la stragrande maggioranza dei lavoratori.
La protesta che ha messo a soqquadro Santiango, innescata dall’aumento del biglietto della metropolitana è partita dagli studenti dell’Instituto nacional José Miguel Carrera, la scuola secondaria più antica e prestigiosa del Cile, si è estesa come un incendio a tutto il Paese. Il coprifuoco riguarda al momento nove regioni. Le lezioni nelle scuole e nelle università sono sospese. La metropolitana della capitale, con cui si spostano 3 milioni di persone quotidianamente, è chiusa. Funziona solo una linea.
L’aumento del costo della metro sarà revocato, ma l’annuncio non è stato sufficiente a placare gli animi perché l’aumento del prezzo del biglietto è stato solo la miccia della rivolta. Si protesta contro il caro vita, contro l’alto indebitamento a cui è costretto il cileno medio, soprattutto se giovane, soprattutto se ambisce a frequentare un’università. Julieta Nassau, inviata a Santiago del giornale conservatore argentino «La Nacion», riporta in un suo articolo alcuni voci dalla piazza. Tra cui questa: «Ho 28 anni e fino a 40 anni dovrò pagare i costi dei miei studi universitari. Guadagno 300 mila pesos e 80 mila servono per pagare il debito contratto per finanziarmi gli studi. Duecentomila li spendo per la casa. Il resto per i trasporti e per vivere. Ci vivo due settimane».
Secondo uno studio della Fondazione Sol, 11 milioni dei 18 milioni di cileni sono indebitati. Secondo dati della Università cattolica negli ultimi dieci anni il costo di un’abitazione è salito addirittura del 150%, i salari invece del 25%. Secondo le cifre del Ministero cileno dello sviluppo sociale le entrate del 10% più ricco della popolazione sono di 40 volte più alte di quelle del 10% più povero. La metà dei cileni guadagna meno di 400mila pesos al mese, circa 550 euro e gli affitti a Santiago sono alle stelle, difficile trovare un appartamento che costi meno di 300mila pesos. Il sistema sanitario pubblico è caro e pessimo. Quello privato inaccessibile. Lo stesso vale per l’educazione. All’università si può accedere solo indebitando se stessi e le proprie famiglie per decenni. Il sistema pensionistico, interamente in mano a fondi privati, è quello ideato da Pinochet. Le pensioni sono bassissime. Esistono due grandi classi sociali: i benestanti, l’alta borghesia, chi vive di rendite professionali e familiari. E la classe lavoratrice che arranca, è strozzata dai debiti e non arriva a fine mese.
Difficile parlare di modello economico di successo con queste cifre. Il successo di chi? Il punto interrogativo si legge in faccia anche ai meno scettici in questi giorni a Santiago. Insieme al disorientamento si estende anche la sfiducia nelle istituzioni e nel valore del diritto di voto, la conquista del quale è costata non poco sangue in Cile. Oltre la metà degli aventi diritto non si presenta alle urne. Da questa sacca enorme di malcontento e dalle periferie stanche, affamate, disilluse e molto giovani per età media degli abitanti, viene buona parte dell’esercito di incappucciati che sta assaltando supermercati, dando fuoco a stazioni della metro, distruggendo quel che trova al suo passaggio. Anche il grattacielo dell’Enel a Santiago è stato arso qualche notte fa.
Sebastian Piñera ha dichiarato in conferenza stampa: «Siamo in guerra» Frase non felicissima nel mezzo di una crisi la cui gestione è ormai sfuggita di mano anche all’esercito. Gli ha risposto il ministro della Difesa, il generale Iturriaga, quello ai cui comandi stanno i soldati schierati. «Non sono in guerra con nessuno, io». La pessima gestione politica della crisi si è riflessa anche nelle piazze finanziarie. Bloomberg ha calcolato che dopo il tonfo del 4,6% della Borsa di Santiago e il deprezzamento di oltre due punti del peso cileno sul dollaro, si sono volatizzati 7,8 miliardi di dollari.