L’esperimento di un Myanmar democratico si è concluso, come noto, con un colpo di Stato andato in scena il primo febbraio. Tutti i poteri sono stati trasferiti al generale Min Aung Hlaing, capo del Tatmadaw – l’esercito birmano – mentre il generale Myint Swe è stato nominato presidente a interim. Aung San Suu Kyi e molti altri esponenti di spicco della Lega nazionale per la democrazia, il partito vincitore delle elezioni dello scorso novembre, sono stati arrestati in un raid delle forze armate, a poche ore dall’inaugurazione del nuovo Parlamento.
Cosa succederà adesso? «Il futuro – afferma Penny Green, professoressa alla Queen Mary University di Londra e attivista per i diritti umani – dipenderà dalla forza e dalla persistenza della resistenza civile, dalla risposta dei gruppi ribelli nelle zone di confine e dalle lotte di potere all’interno delle forze di sicurezza. Se la polizia o i ranghi più bassi dell’esercito sfideranno i leader del colpo di Stato e si uniranno alle proteste, allora un cambiamento radicale verso una vera democrazia sarà possibile».
In ogni caso i militari non molleranno la presa facilmente, sostenuti anche da Pechino e Mosca. Secondo diversi analisti, nonostante abbiano promesso nuove elezioni, non si cureranno più di tanto delle eventuali sanzioni provenienti dall’estero. Forse allungheranno lo stato di emergenza, sfruttando il tempo per organizzarsi ancora meglio nel controllare il Paese. Un po’ quello che è successo nella vicina Thailandia, dove le forze armate dopo il golpe del 2014 sono ancora al potere. In questi anni infatti il premier ed ex generale Prayut Chan-o-cha ha esautorato i partiti e consolidato l’autorità nelle mani di organismi non eletti e controllati dall’esercito.
I militari birmani non hanno mai celato la loro vocazione autoritaria. Nelle settimane precedenti al colpo di Stato avevano denunciato delle irregolarità nelle votazioni e avevano minacciato di «passare all’azione» se le accuse di brogli non fossero state considerate dal Governo. E così è stato. Ma il popolo non è rimasto a guardare. Nei giorni successivi, infatti, centinaia di migliaia di persone sono scese nelle strade per chiedere la liberazione dei detenuti politici e il rispetto dell’esito delle elezioni. Con le proteste, è iniziata anche la repressione. L’esercito ha imposto la legge marziale in varie parti del Paese e ha dato l’ordine alle forze di sicurezza di usare il pugno duro contro i manifestanti.
«Quanto è accaduto il primo febbraio conferma ciò che gli attivisti politici affermano da tempo», spiega Green. «Il Tatmadaw non ha mai avuto intenzione di promuovere vere riforme democratiche». Infatti, nonostante si sia spesso parlato di un nuovo corso del Myanmar, aperto agli interessi dell’Occidente, i militari hanno continuato ad avere un enorme peso, controllando la vita politica, economica e sociale del Paese. Basti pensare che il 25 per cento del Parlamento è riservato a loro, indipendentemente dall’esito delle elezioni.
L’esercito controlla i ministeri degli Interni, della Difesa e degli Affari di confine, oltre a gestire una buona fetta delle risorse naturali. Inoltre la giunta militare che ha comandato il Myanmar per decenni è parte del Consiglio per la difesa e la sicurezza nazionale, il quale in ogni momento le dà il permesso di modificare le leggi e di assumere il controllo della Nazione qualora, secondo il suo giudizio, l’integrità della stessa venisse in qualche modo minacciata. Cosa che ha fatto proprio il 1. febbraio.
Min Aung Hlaing è il numero uno delle forze armate birmane dal 2011, dall’inizio quindi della transizione «democratica» del Myanmar. Da soldato si è trasformato anche in un politico molto attivo e in poco tempo è diventato l’uomo più potente del Paese. Nominato capo dell’esercito al posto del generale Than Shwe, padre-padrone della Nazione dal 1992 al 2011 e tuttora «padrino» del Tatmadaw, è ritenuto la persona giusta per garantire la conti-nuità del potere militare nella vita politica birmana.
Lo stesso Min Aung Hlaing ha ricevuto condanne e sanzioni internazionali per il suo ruolo nelle atroci violenze contro la minoranza musulmana Rohingya, costretta nel 2017 all’esodo di massa in Bangladesh. Nel 2018 una missione indipendente istituita dal Consiglio dei diritti umani dell’Onu lo aveva accusato di genocidio, crimini contro l’umanità e crimini di guerra insieme a diversi alti funzionari militari. «Non bisogna dimenticare che anche Aung San Suu Kyi, con il suo assordante silenzio, è stata complice di queste atrocità», osserva Green. «Credo che le sue ambizioni politiche e il desiderio di guidare il Myanmar l’hanno resa cieca alle potenziali conseguenze di quello che ora è diventata una triste realtà».
Il generale Min Aung Hlaing sarebbe stato costretto ad andare in pensione a luglio, quando avrebbe compiuto 65 anni, perdendo tutto il suo potere, anche quello economico. «Il numero uno del Tatmadaw – dice l’esperta e attivista – detiene il controllo sui due più importanti gruppi del Paese, il Myanmar economic corporation e il Myanmar economic holdings limited, che gli hanno fruttato enormi ricchezze, anche grazie alla corruzione e al clientelismo. È chiaro che con questo golpe si è assicurato il potere e la ricchezza per sé e la sua famiglia».
Le proteste di queste settimane sono le più grandi in Myanmar dopo la «Rivoluzione dello zafferano» scoppiata nel settembre del 2007, che si era conclusa con l’uccisione di decine di persone e centinaia di arresti. Sostiene Green: «Credo che la coraggiosa resistenza del personale medico birmano e di altri attori della società civile, insieme alle invocate azioni di boicottaggio delle aziende controllate dall’esercito, potranno avere un impatto maggiore delle condanne arrivate dall’Occidente». Ma ci vuole di più. «Le potenze dovrebbero sospendere il sostegno politico e finanziario al regime militare». Ma non sarà facile, visti gli interessi strategici ed economici che ci sono in ballo.
L’incerto futuro del Myanmar
Il golpe ha svelato il vero volto della giunta militare, il popolo non ci sta e continua a manifestare. Le lotte all’interno delle forze di sicurezza potrebbero favorire il cambiamento ma la strada è tutta in salita
/ 15.02.2021
di Fabio Polese
di Fabio Polese