L’imperatore rosso e le sue debolezze

Continua la deriva di Xi Jinping verso la tirannide e questo crea le condizioni per l’instabilità futura della Cina. Qual è il ruolo dell’Occidente?
/ 05.07.2021
di Federico Rampini

Come intende celebrare Xi Jinping il centesimo anniversario dalla fondazione del Partito comunista cinese (Pcc) che cade in questo mese? La notizia che la Cina costruisce cento nuovi «silos» per missili intercontinentali con testata nucleare non è rassicurante. Si aggiunge alla distruzione dello Stato di diritto a Hong Kong e alle molteplici violazioni dello spazio aereo di Taiwan nel sottolineare il nazionalismo aggressivo e il riarmo accelerato della seconda superpotenza mondiale. C’è qualcosa che si possa fare per arginare i suoi impulsi più pericolosi?

Se si osserva la storia in una prospettiva di lunghissimo periodo, fermare la Cina suona come un obiettivo velleitario, offensivo, grottesco. Questo popolo e questo Stato-civiltà, cementato da una cultura antica molto prima di essere diventato una Nazione, si sta riprendendo quella centralità e quel peso dominante che furono quasi sempre le sue prerogative. Un «secolo cinese» non sarà una gran novità, ce ne sono stati tanti in passato, nei quali l’Impero celeste era il numero uno. Ma un conto è pensare la storia nell’arco dei millenni, altra cosa è cercare di decifrarne le palpitazioni contemporanee. I cento anni di vita del partito comunista, in quest’ottica, sono una minuscola frazione, un episodio recente e ancora breve nella storia cinese. Certo, rispetto agli avvicendamenti frenetici di forze politiche diverse al Governo delle nostre democrazie, la stabilità cinese può sembrare stupefacente, incute un timore reverenziale (tendiamo comunque a dimenticare che i comunisti governarono ancora più a lungo in Unione sovietica).

Ma quella del Pcc a Pechino è una stabilità solo apparente. L’orgia di retorica con cui Xi celebra questo centenario, nasconde una realtà: il Governo comunista della Repubblica popolare ha già conosciuto ribaltamenti e congiure, golpe interni, incluso un diktat militare, insurrezioni e guerre civili. Ha avuto fasi talmente diverse, dal primo Mao Zedong alla «conversione americana» di Deng Xiaoping, che solo la propaganda può inventarsi una perfetta continuità. Perché il futuro dovrebbe essere diverso? Tutte le dinastie imperiali hanno avuto una fine e questa dinastia rossa non farà eccezione.

Nella discontinuità che segna le varie fasi del comunismo cinese, l’autocrate Deng aveva tentato di introdurre una riforma politica. Pur avendo le mani macchiate del sangue dei giovani di Piazza Tienanmen, Deng tentò di porre dei limiti alla deriva dittatoriale. Edotto dalla sua tragica esperienza come vittima delle persecuzioni maoiste, voleva impedire lo scivolamento dall’autoritarismo alla tirannide. Due furono le novità politiche più preziose dell’era post-Deng: la norma costituzionale che imponeva un termine inderogabile al mandato del leader supremo e la regola non scritta che istituiva una direzione collegiale. Può sembrare poca cosa. Tuttavia era un tentativo di introdurre dei correttivi all’interno del primato assoluto del partito unico.

È vagamente simile al concetto di «checks and balance», poteri e contro-poteri, controlli e bilanciamenti, che è il fondamento della liberaldemocrazia americana. Ne abbiamo visto le virtù all’opera di recente durante la presidenza Trump e nei sussulti eversivi della sua agonia finale. In Cina i correttivi introdotti da Deng hanno garantito dal 1989 in poi delle transizioni indolori da una leadership all’altra. Non ci fu spargimento di sangue nei passaggi delle consegne ai vari Jiang Zemin, Hu Jintao, fino a Xi. Se ci fossero stati i limiti al mandato e la direzione collegiale ai tempi di Mao forse i cinesi si sarebbero risparmiati delle stragi, come la guerra in Corea, la carestia del Grande balzo in avanti, la carneficina della Rivoluzione culturale. L’uomo solo al comando può sbagliare a lungo, senza che nessuno riesca a correggerlo. Nelle gloriose celebrazioni del centenario del Pcc è proibito fare i conti sulle vittime di Mao: superano quelle di Hitler e Stalin messe assieme.

Nel 2018 è successo uno strappo gravido di conseguenze. Xi ha imposto una nuova Costituzione nella quale è scomparso il termine obbligatorio al suo mandato. Questo coincide con una deriva verso la tirannide: accentramento di potere nelle mani di un leader forte, riscoperta del culto della personalità. Non accadeva dai tempi di Mao che funzionari di Stato e militanti comunisti dovessero studiare «il pensiero del leader supremo», ora è tornato in auge. Una eminente studiosa che era stata docente alla scuola di formazione del partito comunista, Cai Xia, si è esiliata in America ed esprime il suo dissenso verso la deriva tirannica fino a definire Xi come l’equivalente di un «boss mafioso». Il giurista Xu Zhangrun che insegnava nella più prestigiosa università di Pechino – la Tsinghua – fino al suo licenziamento nel 2020, denuncia: «La tirannide finisce col corrompere l’intera struttura di Governo e indebolisce un sistema tecnocratico che era stato costruito per decenni». Sul fronte internazionale Xi ha reintrodotto (come ai tempi di Mao) un’alta dose di paranoia nella politica estera del suo Paese. È un fabbricante di fake-news su larga scala, ha riportato in auge teorie di complotti americani dietro ogni evento sgradito. Per puntellare la coesione nazionale alimenta la visione di una Cina accerchiata dall’America che vuole ricacciarla indietro.

Avendo cancellato dalla Costituzione il limite al suo mandato, e abbandonato ogni sembianza di una direzione collegiale, Xi crea le condizioni per l’instabilità futura. Non è dato sapere quando, come, in base a quali regole si svolgerà la successione. L’attuale «imperatore rosso» sembra impegnato in una corsa contro il tempo, per consolidare il suo potere personale e al tempo stesso la potenza della Repubblica popolare nel mondo, approfittando del declino americano, prima che esplodano le crisi nascoste nel sistema cinese.
Tutto questo ci riguarda più di quanto crediamo. Fermare Pechino ha un senso, se alludiamo alla necessità di limitare i danni che Xi può infliggere al resto del mondo; fissare delle linee rosse che la sua smisurata ambizione non deve oltrepassare; proteggere i nostri interessi vitali e i nostri valori.

La tragica vicenda di Hong Kong potrebbe insegnarci qualcosa. È un segnale d’allarme in molte direzioni. Xi ha distrutto quella piccola oasi di regole garantiste e diritti umani, eppure non sta pagando alcun prezzo. A garantirgli l’impunità non ci sono solo le nostre multinazionali e grandi banche per le quali «pecunia non olet». Anche nella società civile, nei mezzi d’informazione, tra gli intellettuali e tra i giovani, tanti fra noi pensano che i «valori dell’Occidente» siano un’espressione ipocrita, un mito da sfatare, un’impostura da smascherare. Ragion di più perché Xi sia certo che nessuno riuscirà a fermare Pechino.