L’idea piace anche a Zuckerberg

Manipolazioni in rete – Vietare sui social il microtargeting politico e le fake news a pagamento sarebbe una grande soluzione riformista per salvaguardare i processi democratici dalle ingerenze esterne
/ 25.11.2019
di Christian Rocca

C’è un modo semplice semplice, un tempo si sarebbe detto un modo riformista, per provare a proteggere quel che è rimasto del discorso pubblico e per salvaguardare i processi democratici dell’Occidente, in attesa che la politica esca dal XX secolo, entri nella nuova èra e cominci finalmente ad affrontare le sfide della rivoluzione tecnologica in modo adeguato ai tempi.

Lo strumento non è la censura dei contenuti che i social veicolano sulla rete, anche se prima o poi le istituzioni si convinceranno della necessità di separare le piattaforme tecnologiche dai fornitori di informazione, e di conseguenza di rendere questi ultimi responsabili delle disinformazioni che fanno circolare.

Non è nemmeno il divieto di ospitare pubblicità elettorale fraudolenta, come è stato chiesto a Mark Zuckerberg al Congresso degli Stati Uniti (e come ha scelto di fare Twitter), nonostante la bizzarra tesi di Facebook secondo cui è sbagliato censurare la pubblicità politica a pagamento, compresa quella palesemente falsa, perché sarebbe una violazione del principio costituzionale della libertà di espressione, mentre invece non lo è passare al setaccio le panzane dei cittadini semplici e degradare con l’algoritmo il ranking delle fake news private, come se quelle gratuite confezionate dall’uomo di strada fossero più gravi di quelle a pagamento diffuse dal presidente degli Stati Uniti o da altri politici e su cui Facebook, soltanto in America, ha guadagnato 857 milioni di dollari tra il maggio dello scorso anno e settembre scorso.

Lo strumento per cercare di riconquistare un minimo di agibilità politica alla libera competizione tra le idee, e per difendere i processi democratici dall’ingerenza delle forze del caos, è il divieto di fare microtargeting politico cioè impedire alle campagne politiche di comprare dai social network la possibilità di aggredire profili dettagliatissimi di elettori cui mostrare testi, grafici, gif e video sartorialmente cuciti intorno a segmenti di votanti molto definiti e ritenuti particolarmente influenzabili dal loro messaggio. 

È il metodo per fuggire dalla trappola del modello di business delle piattaforme che somiglia alle gabbie da esperimenti per topi grazie alle quali gli scienziati sono in grado di anticipare le scelte delle cavie e di determinarle in base agli stimoli trasmessi. Ora le cavie siamo noi e, come ha denunciato il pioniere di Internet Jaron Lanier, la gabbia è il meccanismo decisivo per la manipolazione dell’opinione pubblica a fini elettorali, perché consente di cucire le fake news intorno a un target specifico di elettori, chiusi dentro la gabbia del loro social network di riferimento, per indirizzarli a comportarsi nel modo desiderato.

Di fermare il microtargeting politico ha parlato David Carroll, il professore protagonista del documentario Netflix su Cambridge Analytica The Great Hack (Privacy violata), ma è anche una delle richieste dei dipendenti di Facebook a Zuckerberg per affrontare la questione della privacy e delle infiltrazioni esterne, ma la novità è che ora questa idea piace anche a Facebook, come ha confermato l’ex vicepremier britannico Nick Clegg al sito Politico, oggi diventato alto dirigente del social di Zuckerberg. Secondo il «Wall Street Journal», invece, anche Google sta valutando di farlo.

Una soluzione riformista, efficace e di buon senso da avviare prima che sia troppo tardi rispetto alle elezioni americane del 2020 e con la speranza che arrivi presto una sollevazione popolare contro le fake news politiche a pagamento e, con essa, anche legislatori e leader illuminati in grado di immaginare un nuovo Codice dei diritti su Internet.

Per farcela, però, c’è prima da affrontare i negazionisti delle fake news, quelli secondo cui la disinformatia online non sposta voti, quelli che provano a dimostrare scientificamente, con tanti numerini allegati, come le fake news non influenzino le opinioni politiche di chi le legge. Un dibattito abbastanza surreale, considerato che contemporaneamente il governo inglese guidato da Boris Johnson ha deciso di non rendere pubblico il rapporto dei servizi di intelligence britannici sull’ingerenza russa nel referendum sulla Brexit del 2016. La notizia non si concilia con la tesi dei negazionisti, altrimenti Johnson avrebbe disposto la pronta pubblicazione e magari gli apparati di sicurezza del Regno Unito non avrebbero perso tempo dietro un falso allarme. 

Allo stesso modo, fosse vera la tesi dell’ininfluenza, non si spiegherebbero le opposte valutazioni delle agenzie di intelligence di tutto il mondo, i rapporti delle commissioni del Congresso di Washington, il caso Cambridge Analytica, le preoccupazioni europee, le denunce francesi e tedesche, gli imbarazzi di Facebook e, tra l’altro, nemmeno il Russiagate. Perché tutta questa baraonda, se stiamo parlando di roba che non sposta nemmeno un voto?

La realtà è che la tesi secondo cui le fake news non influenzano l’opinione pubblica è essa stessa una fake news di moda negli ambienti sovranisti, pari a quella del gran complotto di Barack Obama, Matteo Renzi e il governo ucraino per fregare Donald Trump. L’aggiunta dei numerini volti a provare l’ininfluenza delle bugie orchestrate dai russi rende la tesi dei negazionisti ancora più surreale, certo non più credibile, perché non tiene conto che il meccanismo principale intorno al quale si struttura l’attacco informatico ai processi democratici è proprio il microtargeting. 

Valutare le campagne di disinformazione online come normali attività di propaganda dell’epoca precedente la rivoluzione digitale equivale a giudicare la penetrazione di un sito di informazione contando quante copie vende in edicola. In ogni caso, le accertate campagne straniere di disinformazione, efficaci o no, sono comunque un attacco al sistema democratico di chi le subisce, un po’ come la corruzione che è reato anche solo tentarla, non importa se poi si concreta. Ed è compito di chi difende la società aperta contrastarle, non minimizzare. 

Ma c’è anche un metodo molto più terra terra, perfettamente intuitivo per capire se le campagne di disinformazione politica online sono efficaci o meno, ed è il seguente: se, come dicono i sovranisti nostrani, diffondere fake news è assolutamente ininfluente, per quale motivo l’intelligence russa, i nazionalisti americani e Donald Trump dal 2016 a oggi, risultati alla mano, continuano a farlo? 

Perché Putin, Trump e tutti i nuovi movimenti politici sovranisti e populisti organizzano grandi manovre digitali e mobilitano le fabbriche dei troll, utilizzano i bot, aprono account falsi e costruiscono campagne palesemente menzognere? Lo fanno per divertimento? Non sanno come impiegare il loro tempo?