La scorsa settimana, dopo nove mesi, la NOC, National Oil Corporation libica, ha revocato lo stato di forza maggiore sui terminal petroliferi di Es Sider e Ras Lanuf. È la prima buona notizia dopo molto tempo.
La seconda è la firma di un cessate il fuoco permanente che, però, presenta molte più insidie.
Lo scorso gennaio, mentre a Berlino si tentava una faticosa negoziazione tra il governo di Fayez al Sarraj e il suo rivale Khalifa Haftar, le milizie legate a quest’ultimo imposero il blocco dei pozzi petroliferi, che da allora sono stati ostaggio delle forze militari del signore della Cirenaica provocando danni alle entrate dello Stato per 10 miliardi di dollari, «una perdita devastante soprattutto durante questo periodo di crisi nazionale» ha dichiarato la stessa NOC. In settembre una revoca parziale del blocco da parte delle milizie di Haftar ha consentito la ripresa della produzione in alcuni giacimenti, come quello di Sharara, il più grande del Paese, che ha ricominciato a produrre fino a 560 mila barili al giorno. Numeri certamente ancora lontani dal milione e duecentomila barili al giorno raggiunti lo scorso anno.
Oggi, dopo la revoca della forza maggiore sui pozzi, la Libia – che ospita le maggiori riserve petrolifere del continente africano – deve fare i conti con i danni alle infrastrutture e la recrudescenza dell’epidemia di Covid-19 che ha indebolito la domanda globale di energia. La ripresa della produzione petrolifera in Libia preoccupa però l’OPEC, impegnata nei mesi della crisi pandemica, a monitorare i tagli all’offerta e frenare le forniture globali. La Libia è infatti esente dai tagli alla produzione del gruppo dei principali produttori, tagli iniziati la scorsa primavera, a seguito delle conseguenze della pandemia e della contrazione economica che ha fatto crollare i prezzi del petrolio.
Il ritorno sul mercato del petrolio libico rappresenta dunque una sfida per l’OPEC perché sta pesando sulle quotazioni del petrolio e potrebbe minare gli sforzi dell’alleanza per sostenere i prezzi del petrolio. Controllare le risorse energetiche in Libia ha sempre coinciso con il ricatto sui tavoli dei negoziati e per questo l’industria petrolifera libica è stata tormentata da blocchi intermittenti.
Le fazioni rivali hanno costantemente combattuto per il controllo delle aree più ricche di gas e petrolio del Paese, è stato così negli ultimi nove anni, dopo la rivoluzione che ha deposto il rais Muammar Gheddafi, e con più forza nell’ultimo anno, con la guerra a Tripoli.
Il ministro delle Finanze Fraj Boutmati ha stimato che i frequenti blocchi ai terminal petroliferi siano costati negli ultimi anni quasi 130 miliardi di dollari di mancati introiti. In un Paese in cui l’economia è sussidiata e gli stipendi dei lavoratori pubblici, così come le centrali elettriche, le infrastrutture, i generatori di corrente, gli ospedali dipendono dai ricavi delle risorse energetiche.
Quello che è certo è che il cessate il fuoco permanente firmato la settimana scorsa scongiura il rischio di una guerra che sembrava a un passo da essere combattuta nel Golfo di Sirte, zona cruciale della Mezza Luna libica, porta d’accesso ai principali terminal per esportare il petrolio dal Paese.
Le due fazioni rivali hanno accettato un accordo dopo anni di combattimenti, un testo cruciale che impone alle forze militari straniere (si legga mercenari) di lasciare il Paese in tre mesi e getta le basi per i colloqui di pace che dovrebbero tenersi in Tunisia a partire dal prossimo 8 novembre.
L’inviato speciale delle Nazioni Unite per la Libia, Stephanie Turco Williams, ha salutato con grande ottimismo la firma dell’accordo, parlando di «traguardo storico». La Williams ha affermato che l’accordo «rappresenta un importante passo per la Libia e il popolo libico» e si è augurata che «le future generazioni di libici celebreranno l’accordo che rappresenta un passo decisivo e coraggioso verso una soluzione globale della crisi».
Williams sa però anche che la strada è in salita e che troppo spesso negli ultimi anni la firma di accordi o l’organizzazione di incontri bilaterali non è stata sinonimo di una tregua destinata a durare, e ha compensato l’ottimismo con la cautela, riconoscendo che «c’è molto lavoro da fare per attuare gli impegni dell’accordo».
L’accordo firmato a Ginevra prevede che le forze militari sul campo tornino nelle loro basi, che l’addestramento militare che si svolge sulla base di accordi con altri attori statali dovranno essere interrotte, che le forze straniere e le squadre di addestramento si ritirino entro tre mesi «da tutti i territori libici terrestri, aerei e marittimi» – processo che dovrebbe, almeno su carta, essere monitorato dalle Nazioni Unite – e che le forze di sicurezza vengano reintegrate sotto un’autorità centrale statale. Le due fazioni hanno anche concordato la formazione di una congiunta forza di polizia per tutelare le aree dopo il ritiro dei gruppi armati.
Il riferimento ai gruppi armati stranieri è chiaramente rivolto alle migliaia di combattenti siriani schierati dai turchi e soprattutto al gruppo di mercenari Wagner che i russi hanno garantito a supporto delle milizie di Haftar. Nonostante l’embargo sulle armi, la Libia è stata terreno di ingerenze esterne sempre più forti: la Russia con l’invio dei mercenari e gli Emirati e la Turchia con l’invio di grandi quantità di armi, i primi a supporto di Haftar, la seconda inviando droni armati e truppe a supporto di Sarraj.
Questa è proprio la parte più insidiosa dell’accordo, raggiunto a pochi mesi dalla fine della guerra su Tripoli, quando – dopo quattordici mesi di conflitto – le speranze di controllare la capitale da parte del generale Haftar sono crollate, grazie all’intervento decisivo dell’alleato turco in supporto alle truppe di Sarraj.
È proprio l’influenza di attori esterni a minare l’ottimismo per il raggiungimento del cessate il fuoco.
Due giorni dopo la firma dell’accordo, l’agenzia di stampa turca Anadolu ha ribadito che il cessate il fuoco permanente «non influirà sugli accordi militari della Libia con la Turchia», posizione rafforzata dalle dichiarazioni del ministro della Difesa libico Salaheddin al-Namroush che ha detto: «La firma dell’accordo iniziale non include l’accordo di cooperazione militare con lo Stato della Turchia, un alleato del governo legittimo. Confermiamo la cooperazione con il nostro alleato turco e la continuazione dei programmi di formazione militare».
L’alibi è che le milizie di Haftar non rispettino la tregua, e che – pertanto – gli sforzi di addestramento debbano essere più assidui di prima.
Jalel Harchaoui ricercatore specializzato nelle questioni libiche del Clingendael institute de L’Aia, nota che il cessate il fuoco è stato raggiunto quando il fuoco era di fatto cessato da mesi, e che «i turchi hanno posto fine all’offensiva di Haftar su Tripoli. Questo è il motivo per cui da giugno c’è stata relativa calma e tranquillità. Il prossimo passo per la Turchia è quello economico e riguarda la possibilità per le sue aziende di guadagnare e essere pagate in Libia. Le aziende turche, penso alle società elettriche, sono molto ansiose di riprendere gli affari nel nord-ovest della Libia».
Ma prima che arrivino lì, la domanda cruciale è: le Nazioni Unite possono davvero sbloccare la Banca Centrale in modo che possano concretizzarsi i pagamenti per le aziende?
La sfiducia nell’efficacia delle Nazioni Unite era già stata espressa dall’ex inviato speciale Ghassam Salamè, che dopo le dimissioni dall’incarico – esasperato dallo stallo diplomatico – ha accusato il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite di ipocrisia, sostenendo che i suoi membri sostenessero di fatto l’offensiva del generale Haftar a Tripoli ostacolando gli sforzi per la negoziazione.
In un’intervista rilasciata dopo le sue dimissioni al Forum di Oslo, Ghassam Salamé, ha detto di essersi sentito «pugnalato alle spalle» dagli stessi paesi che manifestavano l’intenzione di mediare per la pace in Libia, e ha ribadito che il conflitto libico è diventato un chiaro esempio del fallimento delle Nazioni Unite precisamente a causa delle politiche ipocrite dei principali membri che avevano e hanno interessi economici nel Paese e non hanno previsto sanzioni e misure punitive contro i trasgressori delle risoluzioni delle Nazioni Unite sulla Libia.
«La mancanza di sanzioni incoraggia il disordine – ha detto Salamé – e la Libia ne è un perfetto esempio».
Anche Jalel Harchaoui è cauto sull’effettiva incisività delle Nazioni Unite. Pur ammettendo che «il cessate il fuoco permanente ha mostrato che l’Onu ha trovato un discreto slancio con i suoi interlocutori libici e stranieri» ritiene che l’eccessivo ottimismo di questi giorni da parte di diplomatici e mediatori possa far crollare, addirittura sgretolare, il castello di carte della pace.
«Le Nazioni Unite sono molto ambiziose in questo frangente, ovviamente, - dice il ricercatore - in questo momento il rischio più immediato è che l’Onu non riesca a far accettare il nuovo Consiglio presidenziale da un numero sufficiente di partiti libici. Un passo cruciale e delicato sarà l’inaugurazione di un nuovissimo governo di unità nazionale, vale a dire, un governo che sia riconosciuto in tutta la Libia».
Il prossimo 8 novembre a Tunisi si riunirà il Libyan Political Dialogue, un consesso di 75 rappresentanti libici, per decidere i nomi del nuovo Consiglio presidenziale che possa formare un governo unitario tra est e ovest e lanciare il percorso costituzionale che porti a nuove elezioni entro diciotto mesi. La battaglia, oggi, è sui nomi, la presidenza di tre membri (un presidente e due vice) che avranno sotto di loro il primo ministro e il governo.
La tappa decisiva dei prossimi mesi è dunque la battaglia per la successione, dopo l’annuncio di Fayez al Sarraj che dovrebbe confermare le dimissioni entro la fine del mese, nonostante sia il presidente turco Erdogan sia l’ambasciatore statunitense Norland abbiano già detto con chiarezza che non vogliono che Sarraj lasci l’incarico.
Anche il ministro dell’Interno, Fathi Bashaga, uno dei membri più influenti del GNA di Sarraj esprime preoccupazione per i prossimi mesi. In una recente intervista al «Financial Times» ha ribadito la soddisfazione per gli sforzi diplomatici ma ha allo stesso tempo espresso scetticismo: «Chi dirà davvero ai turchi e ai russi di andarsene?», ha detto, sottolineando che in Libia continuano ad arrivare voli militari giornalieri.
Il GNA di Sarraj e le forze che supportano il generale Haftar dipendono dagli alleati esterni e dalle milizie interne e questi due fattori non possono che influire sull’esito della riunione dell’8 novembre a Tunisi.
Resta dunque da capire quanto il desiderio di stabilità e di riavviare l’economia sia comune ai tavoli diplomatici e agli attori internazionali che sostengono le due fazioni. «Ma nessuno sa che tipo di accordo l’Onu sarà davvero in grado di raggiungere nei prossimi mesi», conclude Jalel Harchaoui. «Forse la parte pro-Turchia sarà delusa. Forse l’altra parte sarà indignata. Semplicemente non lo sappiamo. Nessuno lo sa».