Lezioni ucraine viste dall’America

È tutta la filosofia europea che viene rimessa in discussione dall’aggressione russa nel cuore del continente
/ 28.02.2022
di Federico Rampini

Quali lezioni vorrà trarre l’America dalla tragedia ucraina? Ammesso che le nazioni sappiano decifrare gli insegnamenti della storia, «maestra di vita», forse qualcosa riuscirà ad emergere dalle sofferenze di Kiev. Alcune conseguenze devono riguardare in particolar modo gli alleati europei, nell’ottica di Washington. Energia e difesa sono i temi centrali. L’Europa è in prima linea, però qualche ricaduta riguarda anche il dibattito americano sulla lotta al cambiamento climatico.

La dipendenza europea dall’energia russa (gas e anche petrolio) ha una storia antica. Si allunga fino a John Kennedy, all’inizio degli anni Sessanta, l’elenco dei presidenti americani che ammonirono gli europei sui rischi della dipendenza da Mosca. Più di recente, sia Obama che Trump furono in sintonia nel denunciare il gasdotto Nord Stream 2 come un errore strategico della Germania. La prima lezione dalla guerra ucraina, secondo gli americani, dovrebbe essere una forte spinta alla diversificazione delle fonti di approvvigionamento europee. Questo implica una resa dei conti con certe ingenuità ambientaliste. Le fonti rinnovabili non sono pronte a sostituirsi subito e in toto alle energie fossili. Gli errori di una transizione frettolosa e prematura furono già evidenti quando l’Inghilterra l’estate scorsa soffrì per un ammanco di energia eolica (i venti soffiarono meno del previsto nel Mare del Nord, ricordandoci un limite serio delle rinnovabili), e Londra fu costretta a improvvisi acquisti di gas che fecero salire i prezzi ancor prima dell’attacco di Vladimir Putin.

Il gas naturale è un’energia intermedia – inquina, ma meno delle altre fossili – che deve avere un ruolo in una transizione realistica. L’Italia però si è imposta forti limitazioni sull’estrazione dai propri giacimenti, consegnandosi a una dipendenza pericolosa dalla Russia (o da paesi altrettanto problematici, nonché soggetti a condizionamenti russi: Algeria, Libia, Azerbaijan). Diversificare le fonti geografiche significa anche attrezzarsi per acquistare più gas dagli Stati Uniti e da altri produttori lontani. Il gas che non viaggia nei gasdotti esistenti va trasportato su nave, quindi liquefatto alla partenza e poi ri-gassificato all’arrivo. Le infrastrutture attuali non bastano, l’Europa dovrebbe investire per la costruzione di nuovi terminali attrezzati per la ri-gassificazione. Non sono ricette magiche che danno risultati immediati. Ma se lo shock ucraino non smuove l’inerzia oggi, costringendo a intraprendere azioni troppe volte rinviate, il prossimo ricatto di Putin troverà gli europei altrettanto vulnerabili. E non è ragionevole pensare che Putin voglia fermarsi all’Ucraina.La questione del gas impone scelte delicate anche a Joe Biden. L’ala più ambientalista del partito democratico ha costretto Biden a frenare un’ulteriore espansione dell’estrazione di shale-gas negli Stati Uniti. L’America è in una posizione energetica invidiabile, avendo raggiunto da molti anni l’autosufficienza. Se però vuol essere fedele al suo ruolo di leader dell’Occidente (e protettrice degli alleati europei) non può accontentarsi di guardare in casa propria. Oltre all’autosufficienza dovrebbe potenziare la sua capacità di esportazione. Il guaio è che gli ambientalisti americani osteggiano una strategia americana di sviluppo dell’estrazione e dell’export di gas. Biden deve scegliere tra la vocazione di «guida del mondo libero» e quella di avanguardia nella transizione alle energie rinnovabili che i suoi verdi gli assegnano come priorità.

Il capitolo sulle conseguenze energetiche della guerra ucraina deve includere per forza il nucleare. La fragilità e la ricattabilità dell’Europa sarebbero minori, se Germania e Italia non avessero rinunciato al nucleare. Anche in America il movimento ambientalista ha imposto una battuta d’arresto all’energia atomica, sia pure senza arrivare alla chiusura delle centrali esistenti. Lo shock ucraino basterà a riaprire la questione? Le ideologie resistono agli assalti della realtà, ed è probabile che non basti nemmeno la guerra ucraina per smuovere i pregiudizi contro il nucleare.

L’altra grande lezione che gli europei dovrebbero trarre dalla tragedia di Kiev, almeno in un’ottica americana, riguarda la difesa. Anche su questo terreno c’è una continuità bipartisan di presidenti repubblicani e democratici che dalla Casa Bianca hanno criticato la passività dell’Europa. Molti paesi membri della Nato, tra cui Germania e Italia, non arrivano a spendere per la propria difesa neppure il minimo indispensabile che sarebbe il 2% del proprio Pil. Non è un livello imposto da Washington, è un obiettivo concordato con tutti i governi della Nato. Gli inadempienti hanno continuato a ignorarlo pur avendolo sottoscritto. Furono criticati con le buone maniere da Obama, con sgarbo da Trump che ventilò una dissociazione dagli obblighi di solidarietà atlantica. L’aggressione russa all’Ucraina – che della Nato non fa parte – ha ricordato le conseguenze angoscianti di un ridimensionamento delle forze armate: se Putin un giorno dovesse rivolgere i suoi appetiti verso i Paesi Baltici, in quell’area di frontiera il dispositivo della Nato è pericolosamente sottile.

Più in generale è tutta la filosofia del progetto europeo a ricevere un colpo dalla guerra in Ucraina. L’Unione europea si è illusa di poter fiorire come una superpotenza «erbivora» rispettata dal mondo intero per il suo livello di civiltà, proprio mentre Russia e Cina portavano avanti formidabili programmi di riarmo e modernizzazione dei propri eserciti. È tutta la filosofia europea che viene rimessa in discussione dall’aggressione russa nel cuore del continente. Le opinioni pubbliche vorranno affrontare un riesame delle proprie certezze pacifiste? Basterà l’Ucraina a convincerle che il mondo non è regolato dal soft power, che nei rapporti tra nazioni l’elemento della forza militare continuerà ad avere un peso enorme? Se l’Europa occidentale ignora la lezione, deve accettarne tutti i prezzi: una decadenza vissuta ai margini di potenze imperialiste come la Russia, la Cina, la Turchia e l’Iran, comporterà continue rinunce ai nostri valori. Non ci si mette al riparo dalle autocrazie con le manifestazioni per la pace, i sit-in di solidarietà con le vittime dei dittatori. Tanto più che gli europei dovranno interrogarsi sul futuro della protezione americana.

Una lezione implicita – e inconfessabile – che Washington trae dall’attacco russo all’Ucraina è questa: per fortuna che non avevamo ammesso Kiev nella Nato, altrimenti a quest’ora saremmo obbligati a difenderla. Il passo successivo? Sarà chiedersi se i soldati americani dovranno morire per difendere la Lettonia o l’Estonia, la Lituania o la Polonia? Non si può escludere che torni Trump alla Casa Bianca, oppure un altro presidente isolazionista, e che cominci a rimettere in questione l’articolo 5 della Nato cioè l’obbligo d’intervenire in difesa di un alleato aggredito. Di sicuro l’America vorrà rinviare sine die ogni progetto di allargamento della Nato, forse in futuro dovremo tornare a interrogarci sulla sua fedeltà atlantica. Tanto più se gli europei continuano a pretendere dai soldati e dai contribuenti americani dei sacrifici che non si vogliono fare né a Roma né a Berlino.