L’Europa guarda al 2. turno

Francia – I sondaggi danno Macron vincitore: il partito socialista ha deciso di sostenere il fuoriuscito, per il repubblicano Fillon la priorità è battere l’estrema destra. Ma cosa farà quel 19 per cento raccolto da Mélenchon?
/ 02.05.2017
di Paola Peduzzi

Poi al primo turno delle presidenziali, in Francia, è andata secondo le aspettative, la grande contesa elettorale cui tutta l’Europa guarda per capire il proprio stato di salute prevede al secondo turno lo scontro frontale tra nazionalismo ed europeismo, protezionismo e liberalismo, popolo ed establishment. Non poteva che essere così, a pensarci bene: da un anno ormai – anche prima, solo che pareva meno chiaro – questa è la frattura culturale e politica che sta dividendo l’Occidente. E nella Francia della sintesi, i duellanti non potrebbero essere più perfetti: Marine Le Pen, donna forte del sovranismo e della cultura identitaria, contro Emmanuel Macron, uomo nuovo del liberalismo avvolto nella bandiera blu con le stelle dorate dell’Unione europea.

I partiti tradizionali sono rimasti schiacciati da questo duello, i socialisti hanno racimolato poco più del 6 per cento dei voti, un risultato che così misero non era quasi immaginabile. I gollisti in realtà non sono andati molto peggio rispetto al Front national della Le Pen, sono a uno scarto di due punti percentuali, ma in realtà è proprio questo il punto politico interessante: la destra estrema s’è mangiata la destra moderata. Lo stesso è avvenuto a sinistra: l’estremo istrionico di Jean-Luc Mélenchon s’è mangiato i moderati (non moderatissimi) socialisti. Al cannibalismo dei populismi è sopravvissuto soltanto Macron, con il suo programma progressista «né di destra né di sinistra», riformatore, liberale: si pensava che non esistesse, in Francia, un elettorato sufficientemente sensibile a queste proposte, o almeno disposto a giocarsi la carta della novità in un appuntamento tanto importante, e invece Macron si è qualificato al primo posto, lasciando con un sorriso a denti stretti il Front national, che a quel podio mirava quasi sicuro.

L’impresa macroniana è straordinaria, letteralmente: il partito En Marche! è stato fondato un anno fa, e pareva più una missione esplorativa che un progetto politico. Macron aveva compreso di non aver un posto all’interno del Partito socialista – né personale né ideologico: i socialisti si stavano spostando sempre più a sinistra – e aveva iniziato a prendere le distanze con un suo movimento, una sua impresa: ma la Francia è il paese che ha inventato il bipartitismo, ed En marche! pareva più uno sfoggio di vanità in vista di una tornata elettorale più lontana nel tempo che un’ipoteca sulla presidenza. Ora si dice che il coraggio è stato premiato e che anzi altri leader europei dovrebbero mostrare lo stesso coraggio, ma allora, e fino a poco tempo fa, la scissione macroniana pareva più una fuga che una risposta. Invece oggi En Marche! potrebbe diventare il partito del presidente, una start up che deve ritrovarsi grande in pochissimo tempo: questa sarà la sfida che dovrà affrontare Macron se dovesse entrare all’Eliseo, perché le legislative sono a giugno e la formazione dell’Assemblea nazionale avrà un impatto profondo sulle possibilità concrete del presidente di governare. Ma a questo ci si penserà dopo, ora c’è il 7 maggio.

I sondaggi dicono che la strada per Macron è pianeggiante: il Partito socialista ha deciso all’unanimità di sostenere il fuoriuscito; François Fillon, leader dei Républicains sconfitto, ha dichiarato che la priorità è battere l’estrema destra; molti politici importanti stanno convergendo, da provenienze diverse, su Macron. L’incognita più grande è quel 19 per cento raccolto da Mélenchon, il quale non ha voluto dare indicazioni di voto. Il suo elettorato, secondo i sondaggi, è meno radicale di lui e per la metà sarebbe disposto a votare Macron, pure se non condivide molto, perché nel dna della sinistra francese, nelle sue tante forme, c’è la lotta dichiarata e inevitabile al Front national. Ma dal punto di vista ideologico, a parte la xenofobia, ci sono molte vicinanze tra l’estrema destra e l’estrema sinistra, sui temi economici e su quelli internazionali (la liaison con la Russia in primo luogo), e la non-indicazione del leader Mélenchon lascia aperta la porta verso il voto alla Le Pen o, più probabilmente, verso l’astensione, che è uno degli incubi più grandi dei macroniani.

Nonostante non ci sia una rilevazione che dia la vittoria di Macron al di sotto del 60 per cento, la costruzione di un fronte repubblicano contro la Le Pen è molto più complessa rispetto a quella, spontanea, del 2002, quando il Front national arrivò al ballottaggio contro la destra di Jacques Chirac. Per molte ragioni: la prima è di certo che allora la vittoria di Jean-Marie Le Pen, il padre, fu uno shock che nessuno s’aspettava e che l’emergenza portò in piazza migliaia di persone fin dal primo giorno della campagna elettorale per il secondo turno. Oggi lo shock non c’è: era prevedibile che la Le Pen si qualificasse e questo ha costretto molti francesi a fare già i conti con il proprio rapporto nei confronti della destra estrema.

La seconda ragione sta nel fatto che allora c’era il papà e ora c’è la figlia, e se è vero che il cognome pesa, è anche vero che Marine è riuscita in un’impresa politica che fa inorridire il padre ma fa gioire tutti i populisti di destra: si è normalizzata, non è più tossica. Molto è dovuto anche ai suoi avversari, che non hanno mai, nei confronti pubblici, enfatizzato il suo estremismo, lasciando che diventasse una candidata come gli altri, anzi molto più forte. E anzi, proprio per evidenziare il fatto che non vuole pagare il conto del Front national – che in Francia è altissimo: è un partito che nasce contro i valori repubblicani – ma vuole invece intercettare quel grande movimento di protesta che mette in discussione l’ordine costituito, Marine s’è presa un congedo dalla leadership del Front national. Papà Jean-Marie non l’ha presa bene e anzi ha criticato l’approccio troppo soft della figlia, ma per gli indecisi che non voterebbero mai l’ubercapitalista Macron ma hanno anche remore a dare il proprio consenso alla «fascista», la strategia potrebbe avere molto senso. In particolare per i giovani, che già hanno votato più Mélenchon che Macron e che non hanno affatto disdegnato la Le Pen: la memoria storica pesa di meno, certamente meno del senso di esclusione che attanaglia la nuova generazione di francesi.

Fin da subito, dalla serata del primo turno, la Le Pen ha impostato la sua campagna elettorale per il secondo turno in modo chiaro: si è fatta portavoce del popolo contro le «élite arroganti», ha detto di voler prendersi cura delle ferite sociali del Paese, lasciando in disparte le appartenenze politiche, che pure per un partito come il Front national che fonda la sua storia sull’identità suona piuttosto bizzarro. Ma la battaglia oggi è questa, e l’unico modo per vincerla è quella di definire in modo preciso il campo: la vittoria della Brexit prima e ancor più quella successiva di Donald Trump in America sono il segnale che rabbia e risentimento possono determinare rivoluzioni inaspettate. Il voto giovanile costituisce un’eccezione in Francia: la Brexit fu votata dai nonni più che dai nipoti e Trump è il beniamino di un elettorato anziano. In Francia invece i giovani sono più pessimisti, e quel punto esclamativo gioioso nel logo di En Marche! non lo amano affatto. Ma a parte i giovani, le altre dicotomie riscontrate nei voti in Inghilterra e negli Stati Uniti sono rispettate: Macron va molto forte nelle città (a Parigi ha ridotto la Le Pen al 5 per cento) e nell’ovest liberale del paese; la Le Pen vince nelle campagne e nelle zone de-industrializzate, che sono definite i «deserti» della Francia tanto sono escluse dalla celebre vivacità dei centri urbani. Macron va forte nelle classi più agiate, più istruite, più informate, mentre la Le Pen prende il voto operaio, anche se al primo turno ha dovuto spartirselo con la sinistra «indomita» di Mélenchon.

Il format è conosciuto, ed è per questo facile per i lepenisti ricordare a ogni passo che i media hanno già sbagliato tutto più volte, che le élite hanno il vizio di non correggersi e di ricadere negli stessi errori, sottostimando l’insofferenza nei confronti del sistema. Il parallelo corre subito a Hillary Clinton, e infatti da più parti il paragone tra Macron e la candidata sconfitta da Trump è diventato mantra. Ma Macron non è Hillary, non soltanto per questioni anagrafiche e di genere (non ha ancora quarant’anni, Macron), ma perché non ha il fardello del clintonismo e quell’odio che soltanto lei riusciva a generare. E per quanto possa sembrare strano, vista la formazione da tecnico e i modi un po’ robotici di Macron, il vero successo contro il sistema è lui. Più europeista degli europesti tra l’altro, un inedito globale e imperdibile se si ha fame di «rupture».