«Dobbiamo salvare l’Europa», dice Pierre Moscovici, «da Salvini, Orban e Le Pen». Uno dei tre personaggi che il commissario europeo per gli affari economici e monetari vorrebbe neutralizzare, Matteo Salvini, risponde così: Juncker e Moscovici stanno rovinando l’Italia e l’Unione europea. Anche Luigi Di Maio, l’altro vicepresidente del consiglio italiano, evocando l’imminente «terremoto politico» coinvolge nella polemica il presidente della commissione Jean-Claude Juncker: la sua Europa, «questa» Europa, non ha che pochi mesi di vita. Salvini concorda: a maggio cancelleremo l’Unione dei banchieri. Poi invita a cercare notizie su Juncker con parole chiave come «sobrio» e «barcollante», insinuando che i problemi di deambulazione del capo della commissione, postumi di un incidente stradale, derivano invece da libagioni troppo generose. Il lussemburghese Jean-Claude Juncker replica pacatamente: questo linguaggio sboccato fa pensare... Poi anche lui mena fendenti: con gli euroscettici si può discutere, ma vanno bloccati «i populisti stupidi e i nazionalisti ottusi».
Lo scambio di gentilezze fra i consoli del governo di Roma nominalmente guidato da Giuseppe Conte e gli uomini di punta di Bruxelles è la cornice verbale di uno scontro fra due visioni dell’Unione. Quella europeista di Juncker e dei suoi commissari e quella sovranista che fa capo ai politici citati da Moscovici: il vicepresidente italiano, il primo ministro ungherese, la figlia d’arte che a Parigi guida l’ultradestra del Rassemblement National. La sfida è stata rilanciata dalle previsioni di bilancio del governo italiano. Per finanziare le loro onerose promesse elettorali i due vincitori del 4 marzo chiedono di alzare l’asticella del deficit consentito dagli accordi europei. Ricordando la paurosa voragine del debito pubblico italiano l’Europa risponde che non è possibile e Salvini, incurante del precedente storico, replica con la consueta levigatezza verbale: «dell’Europa me ne frego».
Già ai ferri corti con Bruxelles a causa della questione migratoria, cavallo di battaglia dei leghisti, il governo di Roma trova proprio nella contrapposizione all’Unione, restia a consentire lo sforamento del deficit, il collante che lo tiene insieme. È infatti formato da due forze la cui visione politica e sociale non potrebbe essere più discordante. Il Movimento 5S è soprattutto radicato nel Sud afflitto dalla disoccupazione di massa, è dunque portato a interventi di tipo assistenzialistico come il reddito di cittadinanza. La Lega, che invece raccoglie la maggior parte dei suoi consensi nel Nord produttivo e vive con disagio l’impronta pauperistica dell’alleato e il soccorso ai «fannulloni», insiste piuttosto sugli sgravi fiscali per le imprese. Inoltre, mentre i Cinquestelle hanno costruito il loro successo a spese del Partito democratico, e cercano di conservare quei consensi con un approccio «di sinistra», egualitario e solidaristico, la Lega si rivolge all’opinione pubblica più conservatrice.
Non a caso Salvini è legatissimo alla francese Marine Le Pen, che ha incontrato nei giorni dello scontro con l’Unione incassandone il plauso e l’appoggio e delineando assieme a lei un’Europa in cui ogni paese «controlla le sue frontiere» e «sceglie la sua economia». Un altro punto sul quale il leghista e Di Maio concordano è la convinzione che nonostante i negativi contraccolpi delle loro politiche sulla borsa e sul differenziale di rendimento fra i titoli di Stato italiani e quelli tedeschi, la situazione economica del Paese è destinata a migliorare. Confidano nell’effetto di alcune misure a favore delle imprese e nelle conseguenze in termini di domanda interna del reddito di cittadinanza. Contando sulla maggior crescita promettono che il rapporto deficit-pil, fissato al 2,4 per cento l’anno prossimo, scenderà al 2,1 nel 2020 per attestarsi sull’1,8 nel 2021. Vanamente l’Europa ricorda che l’oggetto del contendere, oggi, è solo il dato del 2019, che l’Italia si è impegnata a contenere.
Ma queste per Salvini e Di Maio sono quisquilie. Per una semplice ragione: sono convinti che proprio nel 2019 Juncker, Moscovici e compagnia dovranno andarsene e cedere il posto a una commissione di segno diverso, finalmente sensibile agli umori dei sovranisti. Fra il 23 e il 26 maggio i cittadini europei saranno chiamati al voto e sull’auspicato esito di questo voto i due vicepresidenti fondano il loro avvertimento: la vostra Europa è destinata agli archivi. È la stessa prospettiva che induce Juncker e Moscovici a invocare la resistenza per salvare l’Unione dalla rivoluzione che la minaccia. Di fatto, una nuova maggioranza potrebbe prendere il posto dell’attuale che regge la commissione Juncker, costituita dal Partito popolare, dai socialisti e dai liberal-democratici.
Salvini si sta dando un gran daffare in vista dell’appuntamento elettorale di maggio. Allaccia contatti con i partiti sovranisti scandinavi e con gli austriaci, invita l’amico ungherese Viktor Orban a lasciare il Partito popolare per entrare nel gruppo Europa delle nazioni e delle libertà, nel quale la Lega è in compagnia del Rassemblement lepenista. Orban, ideologicamente vicino all’italiano ma abituato a fare di testa sua (per esempio lo applaude sulla questione migranti ma non vuol saperne di alleggerire il carico sull’Italia ospitandone una parte in Ungheria), declina l’invito. Con il suo Fidesz preferisce rimanere nel Ppe e cercare piuttosto di spostarlo verso destra. Per quanto abbiano il vento in poppa, i gruppi sovranisti non pensano di poter raggiungere la maggioranza assoluta: si accontenterebbero di un terzo dei seggi. Quanto basta per poter costruire nel parlamento di Strasburgo l’inedito connubio Ppe-sovranisti. L’obiettivo principale è chiaro: sconfiggere i socialisti, relegare la sinistra all’opposizione.
Magari con l’apporto dei Cinquestelle, oggi alleati a Strasburgo dell’Alternative für Deutschland che auspica da tempo la svolta euroscettica. Lavora in questa direzione anche The Movement, il gruppo fondato da Steve Bannon, l’ex capo stratega di Donald Trump che veste i panni dell’ideologo del sovranismo internazionale. Bannon considera l’Italia giallo-verde il «centro del mondo politico», guidata com’è da «un partito populista con tendenze nazionaliste come i Cinquestelle e un partito nazionalista con tendenze populiste come la Lega». Che cosa si potrebbe immaginare di meglio? Nella visione dell’uomo cacciato dalla Casa bianca Roma è un modello per tutti, dagli Stati Uniti all’Asia.
Ovviamente la realizzazione del progetto di Bannon e dei suoi seguaci dipenderà dalle scelte del Ppe, il cui presidente Manfred Weber non manca di lanciare ai sovranisti segnali d’apertura: per esempio elogia la «linea dura» italiana, sia pure respingendone l’aggressività e augurandosi che sia ricondotta nell’alveo delle politiche concordate dell’Unione. Il mese prossimo il Ppe celebrerà il suo congresso a Helsinki: in quella sede Orban e soci cercheranno di dare al partito la loro impronta sfidando la componente europeista. I sondaggi danno il Ppe in perdita e in forte calo i socialisti. Dalle demoscopie emerge un dato apparentemente paradossale: i voti perduti dalle due massime formazioni andrebbero non soltanto ai sovranisti, ma in qualche misura anche all’Alde, un gruppo fortemente europeista.
Sarà insomma, quella di maggio, una battaglia pro o contro l’Unione europea: euroscettici contro europeisti, i primi baciati dai favori del pronostico, i secondi ansiosi di riscossa. Da una parte chi vuole riprendersi la sovranità ceduta alle istituzioni di Bruxelles, dall’altra la resistenza di chi intende proseguire lungo la strada del federalismo. Tutto ruota attorno al concetto d’integrazione, il duello divide chi la considera eccessiva da chi la trova insufficiente, e proprio per questo si ostina a sognare la storica ascesa verso gli Stati Uniti d’Europa.