L’Europa che piace a Trump

Sbarco Usa in Normandia – Il viaggio del presidente americano nel caos del Vecchio Continente si è svolto pochi giorni dopo le elezioni europee in un clima di logoramento delle relazioni transatlantiche
/ 10.06.2019
di Federico Rampini

Il Guastatore Capo è venuto a godersi lo spettacolo del caos europeo, a cui ha dato qualche contributo aggiuntivo. Donald Trump è stato a Londra, poi in Irlanda e Francia per le commemorazioni del D-Day, il 75esimo anniversario dello sbarco in Normandia. La circostanza è solenne, perciò impone un bilancio delle relazioni fra le due sponde dell’Atlantico: in breve, sono precipitate ai minimi storici. Cosa che, a Trump, sembra un risultato piuttosto gradevole.

Lui ha rincarato la dose, prodigandosi per aumentare la cacofonia europea. Il presidente americano ha consigliato agli inglesi di abbandonare i negoziati con l’Unione europea, quindi abbracciare il cosiddetto «hard Brexit», come viene chiamato un divorzio senza accordo. Ha suggerito che a gestire l’operazione per ricavarne il massimo risultato sia Nigel Farage, l’oltranzista che fu tra i promotori di Brexit. Infine Trump si è speso di nuovo a favore di Boris Johnson, il più anti-europeo fra i conservatori, suggerendo che sia lui a sostituire Theresa May. Si è pronunciato anche il consigliere della Casa Bianca per la sicurezza nazionale, John Bolton, con questa dichiarazione rivolta ai cugini inglesi: «State tranquilli, dopo che noi americani dichiarammo la nostra indipendenza, ce la siamo cavata». In altri tempi si sarebbe parlato di una spettacolare interferenza americana nella politica interna del Regno Unito. Con Trump non ci si stupisce più di nulla e indignarsi è uno spreco di energia.

Questo viaggio del presidente americano nella parte nord-occidentale del Vecchio continente si è svolto pochi giorni dopo le elezioni europee. Frammentazione, polarizzazione, indebolimento delle «famiglie» storiche dell’europeismo (democristiani e socialisti): è tutto accaduto per cause endogene, chi favoleggia di regìe occulte dall’America prende per buone le fanfaronate di Steve Bannon, l’ex consigliere della Casa Bianca che si spaccia come l’eminenza grigia dei sovranismi. Però non c’è dubbio che questa deriva piaccia a Trump. Lui non vuole un’Europa forte. Ha un’avversione profonda per ogni organizzazione sovranazionale.

C’è nel campo sovranista chi spera di usare le affinità politiche con questa Casa Bianca per ricavarne dei benefici. È probabile che s’illuda. A cominciare dal Regno Unito. I fautori dell’hard Brexit continuano a sognare il ritorno ad una «relazione speciale» con gli Stati Uniti, rinsaldata da un trattato commerciale Washington-Londra che compensi la perdita di sbocchi sull’Europa continentale. Ma nel campo commerciale Trump non fa regali a nessuno. Mai. America First è davvero la sua stella polare. Non sa cosa sia la fedeltà nell’amicizia, vuole solo massimizzare il vantaggio per la sua constituency elettorale. Inoltre è sorta una complicazione da quando i democratici hanno riconquistato la maggioranza alla Camera: la presidente della Camera Nancy Pelosi ha detto che non verrà mai ratificato un trattato commerciale bilaterale Washington-Londra, se può destabilizzare la pace tra le due Irlande (questo è proprio uno dei problemi dell’hard Brexit).

Intanto tutti gli europei devono prepararsi ad un’estate rovente sul fronte dei dazi. Per l’annosa disputa Boeing-Airbus, Trump ha stilato una lista di 21 miliardi di dollari di importazioni europee da penalizzare, inclusi molti vini italiani. «Colpisci prima, dialoga dopo», è la sua tattica negoziale. I risultati finora non sono stati deludenti per lui. Nell’unico accordo già concluso, quello con Canada e Messico, Trump ha dimostrato di essere un negoziatore efficace.

Ma il logoramento della relazione transatlantica finisce per danneggiare anche gli Stati Uniti, in una fase in cui il loro rivale principale e «a tutto campo» è la Cina. Se il mondo sta scivolando lentamente verso una nuova Guerra fredda, l’America chiamerà sempre più spesso gli alleati a scelte drastiche: o con noi o contro di noi. Si è visto nel caso Huawei che paesi un tempo molto allineati, a cominciare da Regno Unito e Germania, oggi fanno scelte ambigue, preferiscono non mettersi contro la Cina. Se il nuovo conflitto è questo, il Guastatore Capo è la persona meno adatta a costruire una coalizione che aiuti l’America a vincere la sfida. Nel 75esimo del D-Day il tema incombeva su questo presidente ma anche sui leader europei riuniti sulle spiagge della Normandia: cosa si è guastato nella relazione transatlantica, per quali ragioni, e da dove si potrà ricominciare a ricostruirla, se mai ne esisteranno le condizioni.

Donald Trump sta forse calcando le orme di Ronald Reagan? Tra il suo sogno e la realtà c’è una distanza notevole. Promettendo di rilanciare la «relazione speciale» tra gli Stati Uniti e il Regno Unito, ha offerto agli ultrà secessionisti un «accordo commerciale formidabile, grazie al quale i nostri scambi bilaterali raddoppieranno, forse triplicheranno». Regalo avvelenato, o trappola. Infatti per raddoppiare o triplicare gli scambi tra le due nazioni, l’Inghilterra dovrebbe fare concessioni estreme alle multinazionali Usa, contrarie ai suoi principi: svendere la tutela dei consumatori, o i controlli sui prezzi dei farmaci nel suo servizio sanitario nazionale. Ma quel che conta è il gesto politico: la determinazione con cui Trump vuole accelerare l’uscita del Regno Unito e indebolire l’Unione europea.

Non è la prima volta nella storia che Londra viene contesa fra l’Europa e gli Stati Uniti. Anzi, se non si è colpiti da amnesia, bisogna ammettere che questa è una costante: l’indecisione del Regno Unito tra la sua vocazione storica di potenza dei mari (le nostalgie imperiali, l’attaccamento all’area ex coloniale del Commonwealth, l’attrazione fatale verso i potenti cugini americani che due volte intervennero in suo aiuto nelle guerre mondiali) e i legami materiali con il Continente.

Il presidente francese Charles De Gaulle non la voleva nella (allora) Comunità europea perché era convinto che sarebbe sempre stata una sabotatrice, segretamente fedele all’America. Il tema della «relazione speciale» fra le due cugine anglosassoni è stato declinato in tanti modi: nacque con l’asse Roosevelt-Churchill nella Seconda guerra mondiale, fu riscoperta e rilanciata dal duo Reagan-Thatcher, poi ebbe un’altra giovinezza nella chiave della Terza Via riformista da Clinton-Blair.

L’unico presidente a cui Trump sogna di assomigliare è Reagan. Anche l’ex-attore di Hollywood ai suoi tempi fu sbeffeggiato dai media, irriso dagli intellettuali, disprezzato da molti alleati europei. Ebbe l’ultima parola lui. Trovò una sponda eccezionale nella Lady di Ferro. Insieme Ronald e Margaret furono protagonisti della spallata finale all’Unione sovietica. Se l’America vinse la Guerra fredda su tutti i fronti, non solo quello geostrategico, la battaglia delle idee avvenne con la riscoperta di Adam Smith e Von Hayek, il trionfo del neoliberismo di Milton Friedman. La Thatcher, forte dell’appoggio americano, fu una partner scomoda per gli altri europei. Boicottò l’Europa «sociale», i diritti dei lavoratori. Promosse l’Europa dei mercati. Ebbe scontri memorabili con il cattolico-socialista Jacques Delors, presidente della Commissione. Ma la Thatcher si fermò sempre un passo prima della secessione. Non c’era Brexit sul tavolo.

Reagan da parte sua voleva che gli europei marciassero uniti nella sfida finale all’Impero del male, il blocco comunista. Reagan era un grande conservatore con una sua idea molto chiara dell’Occidente: Trump non usa neppure questo termine. Reagan si era formato alla politica da ragazzo sotto il fascino di Roosevelt; fu capo del sindacato degli attori a Hollywood e guidò la caccia ai comunisti, facendosi comunque una palestra di allenamento alla politica; governò uno Stato importante come la California. Sempre con un nucleo duro di valori.

Trump ha una storia di affarismo senza scrupoli, ha accettato ogni sorta di finanziamenti per le sue avventure immobiliari, ha avuto progetti d’investimento anche in Russia. Si capisce che un’idea nobile dell’Occidente sia estranea alla sua cultura. Per l’attuale presidente tutto è negoziabile e fungibile, anche l’Alleanza atlantica durata 75 anni vale solo per quel che l’America può ricavarne, altrimenti diventa un onere.

È interessante fare un paragone tra due visite molto simili accadute nell’arco di meno di un anno. Trump visitò Londra nel luglio del 2018; in quell’occasione fece le stesse mosse che ha ripetuto in questi giorni. Parlò a favore di un hard Brexit, elogiò Johnson e Farage. L’anno scorso però sembrava più isolato; era anche sotto la minaccia del Russiagate. In 11 mesi molte cose sono cambiate. Lo spettro dell’impeachment è molto meno verosimile, soprattutto perché lui ha rafforzato la maggioranza repubblicana al Senato nelle legislative di novembre. L’economia americana è in buona salute. 

È l’Europa invece ad essersi indebolita. Se Trump attrae dalla sua parte il prossimo governo britannico, al G7 sarà tutt’altro che isolato: la partita diventa tre contro quattro, visto che il Giappone di Abe è «trumpiano per necessità». O quattro contro tre, se il governo italiano scivola nell’orbita americana. La relazione transatlantica ne esce malconcia, ma non è chiaro quale disegno l’Europa continentale saprà opporre al «ciascuno per sé» di America First. La crisi della Nato e di tutte le altre dimensioni dell’atlantismo – politico, economico, culturale e valoriale – non nasce con Trump. Lui è come sempre il detonatore. I problemi esistevano da prima. Ad avere smarrito un’idea forte dell’Occidente sono in tanti. Nelle grandi scelte strategiche, la deriva verso la Russia o verso la Cina ha avuto protagonisti importanti a Berlino, Londra, Parigi. Ora è facile dare la colpa a Trump, ma la distanza tra le due sponde dell’Atlantico si stava già allargando sotto Barack Obama e George W. Bush.