«Li seppelliremo nel sangue», dice il primo ministro d’Etiopia Abiy Ahmed Ali. L’espressione è piuttosto sorprendente da parte di un premio Nobel per la pace. Abiy Ahmed, che ricevette il Nobel nel 2019 per essere riuscito a terminare la lunga e cruenta guerra con l’Eritrea, si riferisce ai nemici di un nuovo conflitto, che contrappone al potere centrale di Addis Abeba i ribelli della provincia settentrionale del Tigré. Il fatto che il primo ministro abbia smarrito l’aplomb che si conviene a chi è ufficialmente connotato come uomo di pace si deve al fatto che i ribelli sono ormai in marcia verso la capitale. Il capo del Governo sente scricchiolare il suo potere e chiama a raccolta chiunque sia in grado di maneggiare le armi. La provincia ribelle confina con l’Eritrea, e fu proprio l’avversione all’accordo di pace a scatenare la rivolta del Fronte popolare di liberazione del Tigré. Attacchi a sorpresa, offensive, stragi di miliziani e civili: le due parti hanno riproposto l’orrendo campionario delle guerre africane e non soltanto africane.
L’Etiopia non è certo nuova ai confronti armati fra il centro e la periferia. Ne è stata sconvolta da sempre, fin da quando nel Quattrocento una missione diplomatica portoghese salì sull’altopiano per verificare la leggenda del prete Gianni. Da tempo si favoleggiava di un sovrano cristiano a capo di un impero vasto e potente, ebbene proprio lassù l’enigma sembrò risolto: da quelle parti c’era davvero un regno cristiano, un forte potere alle prese con una pletora di irrequieti vassalli. Da tempo convertito ai Vangeli, aveva dovuto difendersi non soltanto dagli irrequieti Ras delle province ma anche dall’assalto dei vicini di fede islamica. La chiesa etiopica praticava come i copti d’Egitto la teologia miafisita che nega la doppia natura umana e divina di Cristo ma considera indivisi i due elementi. Dichiarava di custodire la biblica Arca dell’alleanza e faceva risalire la fondazione del regno a un leggendario Menelik, il primo imperatore dell’acrocoro, figlio di Salomone e della regina di Saba.
Così era nato, fra storia e mito, l’impero delle alte terre destinato a sopravvivere nei secoli. Era un crogiolo di popoli e di tradizioni. Parlavano lingue diverse e professavano diverse religioni: cristiani prima di tutto, ma anche musulmani, animisti, persino israeliti. C’era infatti una piccola minoranza, i falascia o ebrei neri, fra i quali circolava una leggendaria profezia: un giorno grandi uccelli dalle ali d’argento li avrebbero riportati nella Terra promessa. E così puntualmente accadrà nel Novecento, quando con un ponte aereo il Governo israeliano trasferirà a Gerusalemme la maggior parte di quei fratelli perduti.
Proprio per appoggiare il suo potere sulla tradizione biblica, a fine Ottocento l’ambizioso signore dello Scioa, Sahle Mariàm, si fece incoronare Negus Neghesti, re dei re, con il nome di Menelik II. In quegli anni minacciava l’impero un’insidia proveniente dall’Europa: mossa da appetiti colonialistici, l’Italia aveva messo piede sulla costa eritrea e guardava con interesse al vicino saliente dell’altopiano etiopico, o abissino come si diceva allora. L’accesso al trono di Menelik II era stato il frutto di una lunga lotta fra i potentati locali, e proprio su questa litigiosità interna puntò la diplomazia italiana per estendere il dominio. Non proprio con gli effetti sperati, si sa come andò a finire: la disfatta di Adua del 1896 fu la prima sconfitta di un esercito europeo, dopo le guerre puniche, da parte di una potenza africana.
Una quarantina di anni più tardi, con un nuovo Negus, il riformatore Hailé Selassié, sul trono di Menelik, l’Italia di Mussolini motivata dalla volontà di resuscitare l’impero romano tornò alla carica incurante del fatto che l’Etiopia era membro della Società delle nazioni. Gli invasori non esitarono a impiegare armi chimiche venendo meno al Protocollo di Ginevra che dal 1925 li impegnava a non farne uso. Furono bombardati con i gas non soltanto equipaggiamenti e reparti militari, ma anche indifesi villaggi colpevoli di appoggiare l’esercito nazionale. Ancora una volta si sfruttarono le rivalità interne, non a caso diversi notabili tigrini si schierarono con le forze italiane, così come fecero gli oromo, o galla, l’etnia più numerosa (oggi costituisce quasi un terzo della popolazione). Più tardi, quando il Paese si sollevò contro la brutalità dell’occupazione militare, anche molti tigrini e oromo presero parte alla resistenza. Cacciati gli italiani con l’aiuto dei britannici, Hailé Selassié poté riprendere il suo posto nel palazzo imperiale di Addis Abeba.
L’Etiopia restituita nella sua indipendenza soffriva come sempre di un’instabilità di fondo nei rapporti fra il centro e le province, quella stessa che alcuni secoli prima induceva gli imperatori a non isolarsi in una capitale. Preferivano esercitare il potere a capo di una corte itinerante, che visitava a turno i capi locali e riscuoteva i tributi. Più tardi la corte imperiale si fermò in una città: prima Gondar, Magdala, Ankober, e finalmente Addis Abeba, «nuovo fiore» in lingua oromo, fondata da Menelik II. Proprio qui il vecchio Negus che aveva resistito all’aggressione coloniale vide progressivamente vacillare il suo potere fra spinte centrifughe, rivolte, rabbiose manifestazioni di piazza. Fino al colpo di stato del 1974, quando un gruppo di ufficiali riuniti nel Derg (comitato) trasformò il millenario impero in una repubblica ispirata al marxismo-leninismo, foraggiata dall’Unione sovietica e armata dalla Germania orientale.
Quando tre anni più tardi uno degli uomini del Derg, Menghistu Hailé Mariàm, s’installò solitario al potere, si aprì una stagione di lotte intestine. Ancora una volta il Governo centrale dovette vedersela con le insofferenze periferiche e le volontà separatiste, molte province scatenarono la resistenza armata. Seguirono offensive e controffensive, rappresaglie, stragi. Mezzo milione di morti, secondo una stima giudicata attendibile. Come se non bastassero la siccità e le carestie che periodicamente affliggono il Paese. Il regime comunista giunse al capolinea nei primi anni Novanta, quando Mosca ormai non più sovietica chiuse il rubinetto degli aiuti. I Governi che seguirono dovettero affrontare fra i tanti problemi quello dell’Eritrea: le Nazioni unite ne avevano fatto una provincia autonoma dell’Etiopia, ma Addis Abeba l’aveva annessa eliminando l’autonomia. Nel 1991 l’Eritrea si era resa indipendente, ma il contenzioso era destinato a durare. Fino al nuovo conflitto terminato da Abiy Ahmed, e all’insurrezione del Tigré contro il Nobel per la pace che promette di seppellire nel sangue i suoi nemici.
L’Etiopia e il suo antico male
Il Paese soffre da sempre di un’instabilità di fondo nei rapporti fra il centro e la periferia. Dalla leggendadel prete Gianni all’insurrezione del Tigré contro il Nobel per la pace che promette di seppellire nel sangue i suoi nemici
/ 15.11.2021
di Alfredo Venturi
di Alfredo Venturi