L’era della scarsità e il flop degli economisti

L’inflazione galoppante che caratterizza Stati Uniti ed Eurozona non è soltanto conseguenza della guerra in Ucraina
/ 18.07.2022
di Federico Rampini

L’inflazione record è rivelatrice di questo: siamo entrati nell’era della scarsità. La novità sancisce anche il fallimento degli economisti. La stragrande maggioranza degli esperti – pubblici e privati, impiegati nel mondo della finanza o nei governi o nell’accademia – non ha visto arrivare la più grande svolta economica degli ultimi anni, il passaggio da un periodo deflazionistico (stagnazione di tutto, anche dei prezzi) a un periodo di penurie generalizzate e forti rialzi dei prezzi. Il fiasco degli economisti è gravido di conseguenze, ha contribuito a peggiorare le cose perché ha spinto banche centrali e governi ad azioni che hanno aggravato l’inflazione anziché prevenirla. Non è la prima volta che la professione dell’economista esce malconcia dal test della realtà, anzi gli ultimi anni sono un susseguirsi di casi simili: non seppero prevedere il 2008, sbagliarono ricette sull’Eurozona, previdero Apocalissi mai avvenute dopo Brexit e i dazi di Trump.

Le eccezioni esistono ma sono davvero esigue. Larry Summers (ex segretario al Tesoro Usa) e Olivier Blanchard (ex economista capo del Fondo monetario internazionale) furono tra i pochi a lanciare l’allarme inflazione all’inizio del 2021. Inascoltati, perché la maggior parte dei loro colleghi era del parere opposto: l’inflazione sarebbe stata una fiammata breve, una conseguenza del tutto temporanea della pandemia. Ancora un anno fa a quest’epoca la Federal Reserve e la stragrande maggioranza degli economisti prevedevano un’inflazione del 2% a fine anno. Tant’è, già il 2021 si concluse con un’inflazione che era dal doppio al triplo rispetto alla media delle previsioni di tutti i grandi istituti economici, incluse le banche centrali. E tuttora gli economisti sono incapaci di spiegare l’allineamento dell’inflazione europea su quella americana (a giugno tassi record del 8,6% nell’Eurozona e del 9,1% negli Usa).

Il fatto che la schiacciante maggioranza degli economisti fosse «dalla parte sbagliata» delle previsioni, spiega perché l’economia più ricca del pianeta e la banca centrale più potente hanno gettato benzina sul fuoco dell’inflazione quando c’erano già tutte le condizioni dell’incendio. Convinti che l’America e il mondo fossero sull’orlo del baratro per colpa della pandemia, cioè in una situazione molto simile al cataclisma finanziario del 2008, due governi americani (le Amministrazioni Trump e Biden) e la Federal Reserve hanno esagerato nel loro sostegno alla domanda. Trump nel 2020 ha firmato due manovre di spesa pubblica da 3000 miliardi di dollari. Appena insediatosi alla Casa Bianca nel gennaio 2021 il suo successore ne ha varato una terza da 1900 miliardi, sordo agli appelli di Summers che la considerava irresponsabile: infatti l’economia Usa era già ripartita alla grande, il reddito delle famiglie stava recuperando velocemente, la disoccupazione veniva riassorbita a ritmi sostenuti.

Forse in parte i democratici hanno voluto ignorare il pericolo inflazione perché questo assecondava un’agenda politica: la paura di un disastro economico creava condizioni ideali per lanciare un vasto programma di aiuti alle famiglie, spese sociali e assistenziali. Era il periodo «Biden-Roosevelt», in cui il presidente insediatosi un anno e mezzo fa si sentiva il continuatore del New Deal di novant’anni prima. Del resto l’inondazione di potere d’acquisto creata dalle tre manovre pari a 5000 miliardi, insieme con il blocco dell’immigrazione, ha rafforzato il potere contrattuale dei lavoratori americani, che nell’anno magico del 2021 hanno incassato aumenti salariali record. L’ultimo mese ha visto un aumento salariale del 5,1% che è molto consistente, ancorché inferiore al rincaro dei prezzi.

Se la sinistra americana poteva ignorare il pericolo inflazione per una deliberata scelta ideologica, meno giustificabile è l’errore di previsione della Federal Reserve: ancora nel novembre 2021 la banca centrale era impegnata a creare liquidità acquistando titoli del Tesoro e obbligazioni legate ai mutui, al ritmo di 120 miliardi al mese. Altra benzina sul fuoco dell’inflazione. Certo nessuno aveva previsto l’invasione dell’Ucraina da parte di Vladimir Putin, scattata il 24 febbraio (anche se ci sarebbe da discutere pure su questa «sorpresa» rispetto a un evento premeditato dal 2014). Ma scarsità e inflazione non sono conseguenze della guerra, non soltanto. L’aggressione all’Ucraina ha aggravato le penurie in certi settori – energia, derrate alimentari, alcuni minerali e metalli – ma i problemi di approvvigionamento erano presenti anche prima. Gli errori di previsione e i conseguenti ritardi di reazione ora si ritorcono contro le autorità.

Biden non trae giovamento dagli aumenti salariali, perché il rincaro del costo della vita sta cancellando i benefici per i lavoratori e la fiducia dei consumatori precipita. La sua banca centrale è costretta a rincorrere gli eventi, a operare una stretta monetaria più dura e più veloce, perché la sua credibilità è stata intaccata sui mercati. Restano tanti misteri. L’Europa ha speso molto meno per aiutare i suoi cittadini durante la pandemia, non ha creato quell’eccesso di domanda che è stato generato da Trump-Biden, eppure si ritrova con un carovita molto simile. Il Giappone ha una politica monetaria altrettanto generosa di quella americana eppure non conosce segnali d’inflazione significativi. Anche la Cina rientra nel catalogo dei misteri, perché ha dei rialzi forsennati nei costi di produzione (materie prime), ha conosciuto arresti di produzione prolungati (lockdown), e tuttavia al momento non subisce tensioni inflazionistiche paragonabili a quelle occidentali.

Per ora la recessione americana è rinviata? Il dato dell’occupazione a giugno è stato ottimo, superiore alle attese: +372mila posti di lavoro creati. La creazione di nuova occupazione continua a viaggiare quasi ai ritmi del trimestre precedente, in cui le assunzioni nette erano in media 400 mila al mese. Dunque non c’è stato quel rallentamento che sembrava nell’aria visti tutti gli altri segnali negativi: l’alta inflazione che comincia a frenare i consumi, qualche indebolimento dell’attività industriale, gli annunci di licenziamenti in alcuni gioielli Big Tech com Tesla e Netflix. Invece la disoccupazione resta inchiodata al 3,6% cioè quel minimo storico che raggiunse prima della pandemia. Di converso la Federal Reserve sarà incoraggiata a infliggere nuovi rialzi dei tassi, perché con un mercato del lavoro così vigoroso ci vorrà una terapia d’urto per riportare sotto controllo l’inflazione.

Strano mercato del lavoro, però. Le aziende americane continuano a fare una fatica tremenda a riempire i posti vacanti. Una spiegazione è il calo dell’immigrazione, che riducendo l’immissione di nuova manodopera ha rafforzato il potere contrattuale dei lavoratori. I capitalisti americani protestavano sotto Trump e protestano tuttora perché Biden ha mantenuto una serie di restrizioni ai flussi migratori. Se e quando si riapriranno le frontiere, è chiaro che sarà un sollievo per le aziende e un danno per i lavoratori. Poi c’è la questione giovanile. I giovani, indottrinati da un ambientalismo ultrà, non vogliono più fare lavori «sporchi». Industria, manifattura non li attirano, anzi li spaventano. Il digitale invece, abbracciando il «Vangelo verde» del nostro tempo, ha convinto le nuove generazioni che «salverà il pianeta». Naturalmente è un’impostura, né Google né Facebook, né Amazon né Apple salveranno un bel niente, però il loro fascino sui giovani è enorme, un’intera generazione sogna solo attività digitali.