Quasi nove anni fa l’area di Fukushima, in Giappone, si è trasformata per gli antinuclearisti nel simbolo della incontrollabile pericolosità dell’energia atomica. Ciò che accadde allora viene definito «il secondo disastro nucleare dopo Chernobyl». E come dopo l’incidente nella città di Pripyat, nel 1986, dall’11 marzo del 2011 anche Fukushima è diventata il luogo della disinformazione, delle teorie del complotto, una fonte inesauribile di pregiudizi al limite della superstizione che hanno oltrepassato facilmente i confini del paese del Sol levante. La differenza tra Chernobyl e Fukushima, però, è piuttosto nota: secondo vari report ufficiali il disastro in Giappone fu causato dall’uomo, cioè dalle scarse misure di sicurezza della centrale, che avrebbero dovuto essere adeguate anche in caso di calamità naturali catastrofiche.
Ma nonostante un primo momento di confusione e malafede, soprattutto da parte della compagnia proprietaria dei reattori, la Tepco, il governo giapponese e quello locale della prefettura di Fukushima hanno fatto il possibile per mettere in sicurezza le persone. A oggi sono ancora 42 mila i cittadini che non possono tornare a casa, ma la maggior parte degli sfollati ha ritrovato una vita, magari altrove. Del resto, il calvario della prefettura di Fukushima è ancora lungo.
Il prossimo anno dovrebbe iniziare la fase più delicata della messa in sicurezza dell’area, e anche la più contestata, cioè la bonifica dei reattori. Il governo di Tokyo ha reso noto il programma la scorsa settimana: alla fine del 2021, cioè a più di dieci anni dalla tragedia, si procederà con la rimozione dei resti delle barre di combustibile fuso dal fondo delle vasche di contenimento che si trovano all’interno dei tre reattori danneggiati della centrale nucleare. Il governo ha deciso di rimuovere la parte più pericolosa e altamente radioattiva della struttura, e non di adottare una specie di modello Chernobyl, ovvero di costruire intorno al nocciolo un sarcofago che impedisca al materiale radioattivo di diffondersi.
Secondo gli analisti però restano ancora aperte varie questioni, e sembra troppo ottimista il progetto del governo di rendere l’area della centrale atomica completamente bonificata entro i prossimi 30, 40 anni. C’è per esempio il problema dell’acqua radioattiva, quella che serve per raffreddare i reattori e mantenerli a una temperatura controllata. Un milione di tonnellate di liquido contaminato è già trattato e stoccato in centinaia di cisterne, ma entro il 2022 potrebbe finire lo spazio a disposizione dove collocarle.
Il governo di Tokyo non ha ancora capito come procedere, ma quando è iniziata a circolare l’ipotesi di riversare l’acqua radioattiva nell’oceano, pescatori, abitanti dell’area e paesi vicini, come la Corea del sud, hanno protestato. Seul ha addirittura convocato l’ambasciatore giapponese. Non erano veri i titoli dei giornali sulla contaminazione delle acque, o meglio: si parla da tempo di uno sversamento diluito, che non intacchi l’ecosistema, ma il problema è soprattutto d’immagine, dicono a Tokyo. Secondo gli scienziati lo sversamento di una piccola quantità di acqua radioattiva a intervalli regolari non dovrebbe avere effetti sulla salute dell’ecosistema, ma sarebbe un sistema senza precedenti nella storia, e quindi basato solo sui calcoli, e nessuno vorrebbe avere a che fare con un Paese e un governo che getta scorie radioattive nell’oceano. E l’immagine riguarda tutta la filiera della produzione agroalimentare, dalla coltivazione all’export.
Quella di Fukushima è un’economia bloccata da quasi un decennio, che lentamente sta uscendo dall’isolamento internazionale. In giro per la prefettura, anche a distanza di chilometri dalla centrale nucleare, c’è ancora chi non riesce a vendere un chicco di riso, nonostante i costanti controlli sulle contaminazioni diano da tempo risultati negativi. Anche il coltivatore lontano dell’area di contaminazione subisce il pregiudizio dell’acquirente, per il semplice fatto che i suoi prodotti sono coltivati nella regione di Fukushima, che si estende per tredicimila chilometri quadrati. Per qualche anno l’intera prefettura ha vissuto una specie di autarchia di fatto, con riso, frutta e verdura consumate solo dagli abitanti della regione.
Superata l’emergenza, negli anni successivi all’incidente sono nate nuove linee guida, nuovi protocolli di trasparenza e informazione, anche per combattere certe fake news. E questa nuova strategia di comunicazione ha pagato. Lentamente tutti i divieti di importazione dei prodotti di Fukushima stanno cadendo, grazie anche all’attività diplomatica del primo ministro Shinzo Abe. Dalla scorsa settimana anche l’Unione europea ha smesso di richiedere l’ispezione sulla radioattività dei prodotti che vengono da Fukushima, tranne che per il pesce e i funghi. Secondo il Nikkei Asian Review anche la Cina potrebbe presto accodarsi ed eliminare il blocco delle importazioni da Fukushima. Sarebbe davvero l’inizio di una rinascita per la regione, la più flagellata del Giappone.