L’elezione perfetta di Putin

Russia – Per la prima volta Mosca non è apparsa preoccupata dell’accusa di avere indetto elezioni non all’altezza degli standard democratici. E non teme più di essere giudicata dall’Occidente
/ 26.03.2018
di Anna Zafesova

La telefonata di Donald Trump è arrivata al Cremlino due giorni dopo la rielezione di Vladimir Putin, dopo che il presidente rieletto domenica 18 marzo per il quarto mandato ha comunicato di non considerare l’assenza delle congratulazioni dalla Casa Bianca «un atto ostile». I due leader hanno parlato di un incontro da tenere in un «futuro non troppo lontano», per discutere della corsa al riarmo, Siria, Corea e altri dossier internazionali. Un episodio sintomatico del clima nel quale Putin si avvia ai prossimi sei anni al Cremlino, nonostante la trionfale vittoria nelle urne: 56 milioni di voti, più di quanto avesse conquistato nelle tre elezioni precedenti, il 76% del 67% dei russi che sono andati a votare. Mosca non appare preoccupata dalle numerose segnalazioni di brogli – inferiori comunque a quelle degli scrutini degli ultimi anni – né dalla dichiarazione dell’Osce che ha definito le presidenziali una consultazione non all’altezza degli standard democratici. Si tratta di una svolta significativa: finora la Russia ci teneva molto a venire riconosciuta come democrazia, reagendo con durezza alle accuse e alle critiche, e cercando entro certi limiti di osservare le apparenze.

Stavolta, invece, il candidato più pericoloso per Putin, Alexey Navalny, è stato subito escluso dalle elezioni, e gli altri contendenti sono stati selezionati per non rappresentare alcun rischio: gli eterni sfidanti Vladimir Zhirinovsky e Grigory Yavlinsky, il miliardario comunista Pavel Grudinin e la ex star dei reality Xenia Sobchak sono stati relegati a comparse di una campagna elettorale totale che più che promuovere Putin ha lavorato per spingere i russi nei seggi. Nell’ultima settimana i messaggi che invitavano a partecipare al voto perseguitavano i russi dagli scontrini dei supermercati e dalle schermate dei bancomat, dai distributori di benzina e dalle app dell’home banking, e le segnalazioni di direttori di aziende, presidi, primari, rettori e comandanti che costringevano i loro sottoposti a recarsi al seggio sono state centinaia.

Questo è un altro risultato del voto del 18 marzo: dopo 19 anni al potere, Putin ha costruito una macchina statale perfetta, capillare ed efficiente, che non solo garantisce il risultato desiderato – sul nome del vincitore non c’erano dubbi già anni prima – ma anche i numeri. Dopo sei anni in cui ci sono stati l’annessione della Crimea, la guerra in Ucraina e in Siria, le sanzioni, lo scontro con l’Occidente, il Russiagate e, nell’ultima settimana prima della campagna elettorale, l’avvelenamento in Gran Bretagna dell’ex spia russa Serghey Skripal, Putin non poteva vincere per il rotto della cuffia, aveva bisogno di un’elezione che lo consacrasse padre della patria. Anche a costo di passare dalla categoria delle democrazie parziali in quella degli autoritarismi simili ai sistemi dell’Asia Centrale ex sovietica, dove i leader abbandonano la carica soltanto per il proprio funerale. 

Alexey Navalny, che ha chiamato i suoi sostenitori al boicottaggio delle elezioni e inviato nei seggi 33 mila osservatori, sostiene che l’affluenza reale era inferiore di almeno 10 punti, come sembravano segnalare anche i sondaggi. Ma il sistema putiniano sembra indifferente a queste accuse, e ha imparato a evitare incidenti elettorali come quello del 2011, quando Russia Unita non riuscì a superare il 50% dei voti alle elezioni per la Duma. Resta la domanda di come gestirà i prossimi sei anni, in queste condizioni, e soprattutto di se e come si svolgerà la transizione del 2024, quando terminerà quello che per ora la Costituzione russa impone come l’ultimo mandato di Putin. Curiosamente, è stata la prima domanda che gli hanno fatto i giornalisti dopo la vittoria. Il presidente ha promesso che non cambierà la Costituzione, e non si ricandiderà nel 2030, presumibilmente dopo aver ceduto per sei anni il Cremlino a un «delfino», come aveva già fatto con Dmitry Medvedev nel 2008. Negli ambienti della politica moscoviti girano già scenari di successione che includono il trasferimento di Putin, insieme al suo potere, a un Consiglio di Stato non eleggibile, sul modello iraniano. 

Un’altra ipotesi sarebbe quella, sul modello cubano, di passare gradualmente il potere a una nuova generazione di tecnocrati, allevati nel ventennio putiniano, manager senza particolari connotati ideologici, come gli ultimi governatori nominati dal Cremlino. Ma la soluzione più ovvia potrebbe venire dalla Cina: solo pochi giorni prima delle elezioni russe Xi Jinping ha eliminato il vincolo di mandato senza troppe critiche internazionali, e se la Russia prosegue nella sua nuova «guerra fredda» contro l’Occidente, non avrà più nemmeno il vincolo di dover rispettare norme democratiche di un mondo con il quale è in rotta di collisione.

La distensione infatti non è all’orizzonte, anche perché a tutti è evidente come proprio i toni di guerra contro Europa e America fossero stati la principale carta di Putin. I suoi collaboratori dopo la vittoria hanno ironizzato che nessuno avesse portato più voti al presidente della premier britannica Theresa May, che a pochi giorni dalle elezioni aveva accusato Mosca di essere mandante dell’attentato con gas nervino contro Skripal (che ha intossicato anche sua figlia Yulia e almeno altre dieci persone che non c’entravano nulla). Il principale discorso della campagna elettorale è stato dedicato da Putin alle nuove armi russe, con dimostrazione di missili a testata multipla che andavano a colpire il territorio americano. In altre parole, la retorica che più spaventa l’Occidente è quella che più piace ai russi. E in assenza di un grande potenziale economico per incrementare il benessere dei suoi elettori, al capo del Cremlino non resta che continuare a scommettere sul senso dell’orgoglio nazionale, declinato in termini molto sovietici, di una Russia assediata da nemici.

Una situazione alla quale per ora non si vedono sbocchi reali. Lo scontento – per il carovita, per la corruzione, per la povertà (aumentata negli ultimi quattro anni fino a colpire 20 milioni di russi), per uno Stato sociale sempre più carente, per gli abusi della burocrazia e della polizia – esiste, ed è diffuso, ma non trova un’espressione, in un sistema politico e mediatico rigidamente controllato. La scommessa di Alexey Navalny, con le sue denunce di corruzione, era proprio quella di riuscire a farlo emergere, ma un sistema che riesce a ottenere risultati plebiscitari difficilmente sarà incentivato ad aprire un dialogo con l’opposizione. 

Lo stesso discorso riguarda una parte dell’élite russa – imprenditori, intellettuali, ma anche una fetta dell’establishment governativo – che premeva per una versione più soft del regime, desiderava una normalizzazione dei rapporti con il resto del mondo e una modernizzazione dell’economia e della società russa. Il voto ha dimostrato che quelli di cui Putin non può fare a meno sono i sostenitori dell’hard power, i «falchi», quelli che l’hanno spinto ad annettere la Crimea, a lanciare le guerre fuori dai suoi confini, quelli che hanno invitato a Mosca Marine Le Pen e Matteo Salvini, quelli che gli hanno fatto raccontare nella campagna elettorale di come sarebbe pronto, in caso di pericolo, a lanciare un attacco nucleare per distruggere il mondo, perché «a cosa serve un mondo senza la Russia?». E quindi il rapporto della Russia con il mondo probabilmente resterà quello degli ultimi quattro anni, fino a che, come accadde negli anni 80 con la perestrojka, non sarà la stessa opinione pubblica russa a chiedere una svolta.