In principio è stato il Tibet. Il Tibet vittima di un genocidio culturale e in molti casi anche fisico. Il Tibet con i suoi Lama rapiti e mai più visti, con una composizione demografica alterata da immigrazioni più o meno forzate che rende difficile, sempre di più, mantenere vive lingua, tradizioni e religione. Poi, dapprima in sordina e negli ultimi anni in modo sempre più sistematico, violento e sfacciato, è stata la volta dello Xinjiang. Gli abitanti della regione, uiguri di religione musulmana, sono vittime non soltanto di un genocidio culturale, ma di sterilizzazioni di massa, campi di rieducazione, esecuzioni extragiudiziali e arresti arbitrari. Qualche migliaio di chilometri più in là, nel Belucistan illegalmente occupato dal Pakistan nel 1948, la situazione si ripete da anni con varianti minime: sparizioni forzate, esecuzioni extragiudiziali, fosse comuni, genocidio culturale e fisico sono la norma.
Qual’è il comune denominatore? La Cina. La Cina e il suo progetto di «connettività globale» battezzato Belt and road initiative o Bri (la Nuova via della seta, iniziativa per il miglioramento dei collegamenti commerciali con gli altri Paesi dell’Eurasia). Un progetto di stampo imperialistico modellato sulla vecchia East India company, che vede agli ingegneri e agli operai seguire da presso i militari per «proteggere gli interessi cinesi». Lungo la Bri non corrono però soltanto ferrovie e autostrade ma, parafrasando il titolo di un vecchio romanzo, corre anche il terrore. E le violazioni dei diritti umani. Secondo attivisti locali, ci sarebbe lo zampino della Cina anche dietro il genocidio dei rohingya, ad esempio. Le terre abitate dai rohingya sono difatti parte essenziale dei progetti cinesi di «sviluppo e connettività». E Pechino, come da copione, non vuole avere nulla a che fare con conflitti di tipo etnico-religioso. Che possono essere risolti con la corruzione o, quando questa fallisce, seguendo l’ormai impareggiabile modello del Tibet e dello Xinjiang, del Belucistan e del Myanmar.
La prima e più famosa porzione della Bri è il China Pakistan economic corridor (Cpec), che va appunto dallo Xinjiang fino al porto di Gwadar in Belucistan disperdendosi all’interno del Pakistan in diversi rivoli e sotto-branche. Passando per il Gilgit-Baltisan, altra regione illegalmente occupata che era un tempo parte del regno del Kashmir. La Bri passa poi per il Kashmir occupato dal Pakistan, dove la popolazione è preda di integralisti islamici e terroristi, e arriva fino al Belucistan. La regione più ricca di risorse minerarie del Pakistan, e anche quella più misera in termini di reddito pro-capite. Il 71% dei beluci vive sotto la soglia di povertà. Gran parte dei suoi abitanti non ha accesso né all’elettricità né all’acqua potabile o al gas e in gran parte della regione non ci sono scuole né ospedali. Non solo. Secondo Amnesty international: «I gruppi e gli individui presi di mira dalla pratica delle sparizioni forzate in Pakistan includono persone provenienti dal Sindh, dal Belucistan, individui di etnia Pashtun, membri della comunità sciita, attivisti politici, difensori dei diritti umani, membri e sostenitori di gruppi religiosi e nazionalisti, sospetti membri di gruppi armati e religiosi banditi dal Governo e organizzazioni politiche». E, aggiunge la Defense of human rights: «La maggior parte di questi casi è stata registrata nelle Federally administered tribal areas, nelle Provincially administered tribal areas, nel Khyber Pakhtunkhwa, in Belucistan e nel Sindh». Tutte le regioni, cioè, protagoniste del Cpec.
Tutti gli attivisti sono concordi nel dichiarare che alle spalle degli assassini di Stato guidati dall’intelligence pakistana (Isi) si trovano i servizi segreti cinesi, che regolarmente interrogano quelli che l’Isi preleva e che occupano, militarmente e commercialmente, con la scusa del Cpec le regioni che dovrebbero «sviluppare». La strategia del «guerriero-lupo» inagurata da Pechino non contempla remore etiche o morali. Volenti o nolenti, visto che sono strangolati dai debiti, i Paesi già parte della Bri non possono fare altro che adeguarsi. Specialmente quando, come nel caso del Pakistan o del Myanmar, le istanze cinesi si saldano a regimi già pesantemente compromessi e di fatto dittatoriali. Tramite il Pakistan la Cina si è già accordata anche con i talebani per proseguire la sua Belt and road. Tutti sono consapevoli di ciò che succede, ma tacciono o sono conniventi. Come ha dimostrato l’avvocata Emma Reilly, che ha lavorato nell’Alto commissariato per i diritti umani (Unhcr) di Ginevra e ha denunciato la connivenza tra funzionari dell’Unhcr e rappresentanti della locale ambasciata cinese. In pratica Reilly, producendo documenti ed email, ha accusato l’ufficio dell’Unhcr di passare all’ambasciata cinese nomi e indirizzi di dissidenti, uiguri e non solo, che si sarebbero recati a testimoniare davanti alla Commissione per i diritti umani.
I dissidenti e le loro famiglie sarebbero stati quindi intimiditi, arrestati e in alcuni casi torturati. Secondo Reilly questo «trattamento di favore» da parte dei funzionari alla commissione era riservato soltanto a Pechino. Resta però il fatto che, dietro pressioni cinesi, anche molti dissidenti o richiedenti asilo beluci si sono visti ritirare il permesso di testimoniare o si sono visti negare l’asilo politico. E che da almeno vent’ anni gli uiguri e i beluci, sia a Bruxelles che a Ginevra, testimoniano del trattamento che gli è riservato dalla Cina e dal Pakistan. Senza risposta alcuna.
Le vecchie vie del terrore
Lungo la Belt and road initiative o Nuova via della seta, iniziativa strategica cinese per il miglioramento dei collegamenti commerciali con gli altri Paesi dell’Eurasia, dilagano le violazioni dei diritti umani
/ 25.10.2021
di Francesca Marino
di Francesca Marino