Il Myanmar, nel mirino della comunità internazionale per la durissima repressione nello Stato di Rakhine e il drammatico esodo dei profughi Rohingya. E poi il vicino Bangladesh, che mette insieme radicalismo islamico, emergenza climatica e lavoro in condizioni di semi-schiavitù, tre delle grandi piaghe del mondo di oggi. Bastano pochi tratti per capire quanto si annunci delicato il viaggio internazionale di papa Francesco che da lunedì 27 novembre lo porterà in Asia.
Le difficoltà sono iniziate molto presto per questa nuova iniziativa di Bergoglio. Va ricordato, intanto, che per strada si è perso il Paese geopoliticamente più importante: era stato infatti il Papa stesso, durante una delle sue conferenze stampa in aereo, ad annunciare un anno fa l’India insieme al Bangladesh tra le sue prossime mete. Per New Delhi c’era anche una ragione molto pratica: i vescovi locali avrebbero voluto tenere a Calcutta la canonizzazione di Madre Teresa, celebrata invece da papa Francesco a Roma nel settembre 2016 nell’ambito del Giubileo della misericordia. Il viaggio sarebbe dovuto essere, dunque, una sorta di secondo atto rispetto a quell’evento. Ma a rendere l’ipotesi impossibile sono stati i rapporti difficili tra la Chiesa cattolica locale e il premier nazionalista Narendra Modi, accusato dai cristiani di troppa indulgenza nei confronti dei movimenti fondamentalisti indù. Quegli stessi movimenti a cui vengono attribuite le crescenti azioni violente contro chiese e proprietà dei cristiani, accusati di «proselitismo» soprattutto per le loro attività in favore dei fuori casta e dei tribali.
Accantonata dunque l’ipotesi India, un po’ a sorpresa accanto al Bangladesh nell’agenda del Papa è spuntata la tappa in Myanmar. Meta del tutto inimmaginabile fino ad appena qualche anno fa. Sarà la prima visita in assoluto di un Pontefice in un Paese dalla storia recente travagliata e dove però i cristiani sono una minoranza significativa (intorno al 7% della popolazione). Una Chiesa che ha guardato con speranza alla lenta transizione che vede oggi la storica leader della Lega nazionale per la democrazia – la premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi – condividere il potere con i generali dell’ex giunta militare, dopo aver vinto le elezioni politiche del 2015.
Alla fine di agosto, però, proprio mentre questo viaggio di Francesco veniva annunciato, il quadro si è notevolmente complicato con il riesplodere della questione Rohingya, la minoranza musulmana che vive nello Stato occidentale di Rakhine e che Yangon considera essenzialmente una presenza straniera in un Paese a schiacciante maggioranza buddhista. Alcune azioni di un gruppo indipendentista locale ha scatenato una controffensiva dell’esercito birmano, che non ha fatto distinzioni tra gruppi combattenti e civili. Testimonianze parlano di interi villaggi bruciati e violenze indiscriminate che hanno spinto centinaia di migliaia di Rohingya a fuggire nel territorio del vicino Bangladesh. Che a sua volta – però – non ha intenzione di farsi carico di queste popolazioni e le tiene confinate in campi profughi nella fascia a ridosso del confine.
Oggi si tratta di una grande emergenza umanitaria con 800 mila persone che vivono in campi profughi in condizioni estremamente precarie. Una situazione che ha portato il Myanmar a finire sotto accusa di fronte all’opinione pubblica mondiale; ci sono state persino petizioni per chiedere il ritiro del premio Nobel per la pace ad Aung San Suu Kyi, accusata di complicità coi generali riguardo a questa «pulizia etnica». Da parte sua lo stesso papa Francesco non è rimasto indifferente a quest’ondata di profughi: il Pontefice ha lanciato personalmente un appello pubblico in favore dei Rohingya. Cosa che, però, non è piaciuta affatto alle autorità del Myanmar e men che meno ai gruppi più nazionalisti della galassia buddhista locale, che hanno iniziato a dire apertamente che Francesco non era più il benvenuto nel Paese. Lo stesso arcivescovo di Yangon, il cardinale Charles Bo, è intervenuto pubblicamente per suggerire al Pontefice di non utilizzare il termine Rohingya, ma l’espressione «minoranze musulmane dello Stato di Rakhine», come si è soliti definirle in Myanmar. Del resto va aggiunto che il mosaico etnico del Paese è da sempre un nodo problematico per Yangon e che i Rohingya stessi non sono l’unica popolazione a trovarsi oggi a fare i conti con la repressione dell’esercito birmano; anche negli Stati orientali ci sono scontri e frizioni con i Karen e gli Shan, due minoranze tra le quali si conta anche un discreto numero di cristiani.
In un contesto così complicato è facile prevedere che Francesco si muoverà con prudenza, lanciando sostanzialmente un appello alla riconciliazione nazionale. Tenendo presente anche che il Myanmar oggi si muove nell’orbita della Cina e dunque anche da Pechino si studieranno con grande attenzione le mosse del Pontefice. Due saranno i momenti chiave in questo senso: martedì 28 la visita ai Naypyidaw, la nuova capitale voluta dalla giunta militare all’inizio degli anni Duemila, dove avverrà anche l’incontro con Aung San Suu Kyi: e poi mercoledì 29 la Messa al Kyaikkasan Ground, il grande parco di Yangon dove sono attesi almeno 100 mila fedeli.
Non meno delicata la seconda parte del viaggio, quella che da giovedì 30 a sabato 2 dicembre vedrà Bergoglio fare tappa a Dakha in Bangladesh. In questo caso sarà la visita a un grande Paese a maggioranza islamica (160 milioni di abitanti), dove i cristiani sono appena lo 0,6% della popolazione. Viaggio nel cuore di quella frontiera inquieta che è l’islam dell’Asia meridionale; uno degli angoli del mondo su cui il radicalismo jihadista, in fuga dall’Iraq e dalla Siria dopo la fine del sedicente Califfato, oggi fa più affidamento. Del resto sono decenni che – complici le generose sovvenzioni dal Golfo Persico – l’islam locale tradizionalmente sufi è sfidato dalla presenza sempre più massiccia di predicatori legati alle correnti salafite. Gruppi che si sono saldati ai movimenti jihadisti locali, in un intreccio pericoloso di cui la strage dell’Holey Artisan Bakery, costata la vita nel luglio 2016 a 24 persone tra cui 9 italiani, è stata la punta di un iceberg fatto di una serie molto più lunga di omicidi e violenze che hanno colpito soprattutto blogger e intellettuali laici locali.
Alla luce di tutto questo sarà molto importante l’incontro interreligioso ed ecumenico per la pace che papa Francesco terrà nel pomeriggio di venerdì 1 dicembre nei giardini dell’arcivescovado di Dakha. Insieme all’incontro del giorno successivo con i giovani, vero e proprio banco di prova in Bangladesh per la sfida di offrire alternative convincenti al virus del radicalismo.
Tutto questo senza dimenticare gli altri temi caldi: ad esempio la questione del lavoro in un Paese dove appena quattro anni fa la tragedia del Rana Plaza, con il crollo della fabbrica con le sue oltre 2500 vittime, ha posto davanti agli occhi di tutti le contraddizioni del modello economico che sforna qui abiti low cost per conto dei marchi più popolari oggi nel mondo. Dietro ai prezzi bassi ci sono spesso condizioni di lavoro inaccettabili, che in taluni casi arrivano letteralmente a uccidere.
E poi la sfida del cambiamento climatico: in un Paese come il Bangladesh, posto sul delta dei grandi fiumi, non è più un’ipotesi per dibattiti accademici ma una realtà con cui già oggi ci si trova a fare i conti. Ogni anno che passa le inondazioni si fanno più violente e con effetti anche a lungo termine, confermando come i poveri siano anche in questo caso i primi a pagare il prezzo delle scelte troppo timide della politica nel fare i conti con questioni come la riduzione delle emissioni di gas inquinanti nell’atmosfera. E anche questo contribuisce ad alimentare il flusso delle migliaia di migranti che ogni anno partono dal Bangladesh in cerca di fortuna ai quattro angoli del mondo. Lontana dai riflettori, dunque, Dhaka già oggi è una delle grandi megalopoli del mondo, più vicina alle nostre vite di quanto pensiamo. La visita di papa Francesco è un’ottima occasione per accorgersene. E capire che il nostro futuro – ci piaccia oppure no – passerà anche da qui.