Joe Biden ripete che la sfida tra democrazie e regimi autoritari deve essere vinta nei fatti: dimostrando chi governa meglio, con risultati tangibili per i cittadini. Un test in tempo reale confronta le due superpotenze sul terreno dell’economia. Negli Stati uniti c’è qualche segnale che il presidente Biden stia mantenendo la promessa di migliorare i salari dei lavoratori, un passaggio essenziale per ridurre le diseguaglianze. In Cina Xi Jinping vuole gestire nel modo più indolore possibile il crac dei colossi immobiliari, un evento dalle diramazioni potenzialmente disastrose per centinaia di milioni di persone.
La dinamica salariale americana non era così vigorosa da decenni. A novembre le buste paga sono aumentate in media del 4,8% rispetto allo stesso mese del 2020. In apparenza questo non basta a compensare il rincaro del costo della vita visto che i prezzi sono saliti del 6,8%. La media però è ingannevole, perché nasconde una dinamica anomala, egualitaria. A crescere molto di più sono le paghe dei settori meno remunerativi: dai camerieri dei ristoranti ai fattorini delle consegne, ai portuali e agli autisti dei trasporti. Il settore della ristorazione e degli alberghi vede aumentare le retribuzioni quasi del 15%, quello dei trasporti e dei magazzini di deposito-smistamento del 9%. Sono aumenti ben superiori al tasso d’inflazione.
Finalmente la classe operaia va in paradiso? Oggi in effetti la definizione di «classe operaia» deve includere i fattorini delle consegne, i commessi degli ipermercati, i magazzinieri di Amazon, mestieri classificati nel settore dei servizi ma che per potere d’acquisto e status sociale sono i proletari del nostro tempo. Sembra realizzarsi una delle promesse più importanti di Biden: governare nell’interesse dei lavoratori, migliorare il loro tenore di vita, invertire la dilatazione delle diseguaglianze che dura da almeno 40 anni. Ma quanto è merito di Biden se i salari aumentano? Un ruolo l’hanno avuto le tre manovre di spesa pubblica che dall’inizio della pandemia hanno distribuito aiuti alla maggioranza delle famiglie. Due di quelle manovre portano la firma di Donald Trump, la terza quella di Biden. L’ultima, approvata dal Congresso subito dopo l’insediamento del nuovo presidente, è stata un’operazione di chiaro intento redistributivo. A gennaio infatti la crisi economica provocata dalla pandemia era già finita, in teoria non c’era bisogno di distribuire una terza ondata di sussidi. Così facendo però Biden ha inciso sulle diseguaglianze. Ha consentito ai lavoratori di metter da parte un cuscinetto di risparmio senza precedenti: nella primavera le famiglie americane hanno raggiunto un risparmio medio pari al 26% del loro reddito.
Questa è una chiave della «grande dimissione»: soprattutto nei mestieri più faticosi e meno gratificanti, per la prima volta da generazioni i lavoratori americani hanno visto il loro potere contrattuale migliorare di colpo, hanno potuto essere più esigenti, e milioni di loro hanno sbattuto la porta in faccia al datore di lavoro. Ancora nel mese di ottobre 4,2 milioni di americani hanno dato le dimissioni. Il ricambio di manodopera è elevatissimo e premia i lavoratori: a novembre c’erano 11 milioni di posti vacanti (cioè offerte di assunzione) ma solo 7 milioni di disoccupati in cerca di lavoro. Le leggi dell’offerta e della domanda rafforzano i lavoratori. Lo si vede anche dalla proliferazione di conflitti sindacali, un altro fenomeno che in queste dimensioni non si registrava in America da tempo. Tra le cause strutturali che aiutano i lavoratori due si aggiungono allo tsunami di aiuti pubblici: il calo dell’immigrazione regolare e l’effetto Amazon. Il gigante del commercio digitale paga un salario medio di circa 18 dollari orari, quasi il triplo del minimo federale (7,25). Il salario Amazon ha un effetto di traino, i concorrenti sono costretti a offrire condizioni competitive.
Siamo quindi in presenza di un cambio di paradigma? L’America era diventata il paradiso dei capitalisti almeno dagli anni Ottanta, l’era di Ronald Reagan. Si realizza il sogno di Biden di essere un «nuovo Roosevelt» che restituisce dignità e potere ai lavoratori? Sarebbe una risposta concreta alla sfida sulla capacità delle democrazie di fornire risultati tangibili di equità e benessere. È ancora presto per dire se questo miglioramento sia durevole. Almeno una delle cause sta già svanendo: il cuscinetto di risparmi accumulato grazie alle tre manovre di aiuti si assottiglia, già la quota di risparmio sul reddito medio è tornata a livelli molto più normali, il 7%. Ma una spinta al rialzo salariale è in corso. Per spiegare l’inflazione, l’80% delle aziende dicono di avere aumentato le loro retribuzioni. Cancellata l’epoca di Reagan, torneremo agli anni Settanta con la loro spirale inflazionistica prezzi-salari?
L’altra superpotenza è alle prese con una minaccia interna che potenzialmente ricorda il crac dei mutui subprime nel 2008 in America. Due default gemelli, due giganti nel settore immobiliare cinese, Evergrande e Kaisa, hanno smesso di onorare i propri debiti. Il Governo è impegnato in prima linea nel tentativo di organizzare una liquidazione ordinata. In ballo, da un lato c’è la stabilità del sistema bancario molto esposto verso i gruppi immobiliari, e c’è anche la credibilità del sistema-Cina verso i creditori internazionali. Su un altro fronte questa è una crisi che può avere ripercussioni sociali e politiche, proprio come quella del 2008 in America. Centinaia di milioni di famiglie sono legate ai colossi immobiliari perché per decenni la casa è stata al centro di una bolla speculativa. Una parte dei clienti di Evergrande e Kaisa sono nella categoria «creditori»: hanno versato anticipi prima ancora che si aprissero i cantieri, e rischiano di non vedere mai la casa che hanno già pagato. Altri vedono calare il valore dei loro risparmi. La sfida per Xi Jinping è gestire in modo ordinato le liquidazioni, evitando traumi sociali, distribuendo i sacrifici su chi può sopportarli meglio. Il Governo ci «mette la faccia», come si suol dire, in prima persona: è ormai chiaro che la liquidazione dei gruppi in default viene pilotata dal partito comunista.
Un versante delicato riguarda gli equilibri della finanza locale, perché molte città e provincie si finanziavano vendendo terreni agli immobiliaristi, la crisi del settore prosciuga una fonte di entrate pubbliche. Ci ha rimesso perfino l’autonomia della banca centrale: per spingerla a una politica creditizia più espansiva, onde evitare una frenata troppo severa della crescita (che già rallenta), il Governo ha dato chiari segnali che la banca centrale deve obbedire alle direttive del partito. Anche in Cina la credibilità del sistema è in gioco. Non a caso, fu proprio la crisi americana del 2008 all’origine di una «epifania» per i dirigenti comunisti cinesi, che allora maturarono la convinzione sulla superiorità del loro modello di governo.
Le sfide decisive si giocano in casa
Joe Biden tenta di ridurre le diseguaglianze sociali mentre Xi Jinping si confronta con i crac dei colossi immobiliari
/ 20.12.2021
di Federico Rampini
di Federico Rampini