Le sette vite di Mariano Rajoy

Spagna - Il leader conservatore è riuscito a formare un esecutivo dopo 315 giorni di stallo politico. La guerra interna al partito socialista e le pressioni dell’establishment hanno giocato un ruolo decisivo
/ 07.11.2016
di Gabriele Lurati

A Madrid lo definiscono come un «sopravvissuto». A 61 anni, di cui una quarantina passati in politica, alla fine l’ha spuntata ancora lui: l’inossidabile Mariano Rajoy. Dato per politicamente finito più volte nel corso della sua lunga carriera (due volte sconfitto da Zapatero nel 2004 e 2008), uscito miracolosamente illeso da un incidente di elicottero una decina di anni fa, toccato da vicino dai numerosi scandali di corruzione all’interno del proprio partito, undici mesi fa nessuno avrebbe scommesso su di lui dopo i non brillanti risultati del Partito popolare (Pp) alle elezioni di dicembre 2015.

Tuttavia Rajoy ha tenuto duro, tirando avanti per la sua strada, aspettando pazientemente che le acque si calmassero. Dopo aver ottenuto un miglior risultato nelle successive elezioni di giugno, ha atteso per quattro mesi lungo la riva del fiume fino a vedere passare il cadavere del suo maggior rivale politico (l’ex segretario socialista Pedro Sánchez, eliminato in ottobre dal «fuoco amico» del suo stesso partito) e si è rimesso di nuovo in sella al governo. 

È stato dunque un attendismo vincente quello di Rajoy, ma il neonato esecutivo non avrà vita facile in questa legislatura, dato che il Pp ha solo 137 deputati nelle Cortes, mentre la maggioranza è di 176 parlamentari. Pur avendo stretto un accordo di governo con i liberal-centristi di Ciudadanos (32 deputati) e avendo beneficiato di una tormentata astensione dei socialisti del Psoe nell’elezione di investitura, Rajoy dovrà dimostrare di avere abilità negoziali e fare delle concessioni se non vorrà finire spesso in minoranza in Parlamento. Il leader del Pp si è detto pronto al dialogo e si è proposto di governare per tutta la legislatura, ma la strada è piena di ostacoli e sin da subito dovrà affrontare tre grandi problemi.

Il primo e più urgente in ordine di tempo sarà l’approvazione della legge di bilancio per il 2017 che si prevede sarà durissima, visto il perdurare del deficit delle casse dello Stato spagnolo (un –5% previsto per il 2016). L’Unione europea ha recentemente mandato una lettera al ministro dell’economia spagnolo per ricordargli che nell’imminente manovra economica dovrà includere ulteriori 11 miliardi di euro di nuove entrate per i prossimi due anni. A Rajoy rimarranno quindi solo due opzioni: o aumentare le tasse o tagliare la spesa pubblica.

La linea preferita da Bruxelles è quella della continuazione delle politiche di austerità economica che Rajoy ha attuato nei suoi primi quattro anni di governo. Non a caso si vocifera che l’Ue avrebbe sospeso il procedimento di infrazione aperto nel luglio scorso nei confronti della Spagna per continuo eccesso di deficit (da ben otto anni consecutivi il Paese iberico supera abbondantemente il limite di disavanzo del 3% del PIL, favorendo una crescita smisurata del debito pubblico, passato dal 40% del 2008 a un preoccupante 103% del PIL) in cambio di una prosecuzione del programma di austerity, una volta formato il nuovo governo. Rajoy sarà quindi costretto a una  finanziaria da «lacrime e sangue» che comporterà una nuova serie di tagli e conseguente malcontento sociale, tanto che alcuni analisti prevedono già un autunno con scioperi e contestazioni. 

Il secondo ostacolo è di ordine politico. Quanti e quali appoggi troverà Rajoy in Parlamento per far approvare le leggi? Per il momento ha assicurato solo i voti di Ciudadanos e quindi dovrà continuamente cercare delle sponde anche in altri partiti per raggiungere la maggioranza parlamentare necessaria. Quando si approverà la legge di bilancio, si avrà un’idea più chiara sulla durata e sulla tenuta del governo di minoranza di Rajoy. I socialisti hanno già fatto sapere che non sono disposti a dare il loro appoggio a una manovra in linea con quelle neo-liberali anteriori di Rajoy. In quel momento si capirà se realmente il primo ministro avrà appreso dagli errori del passato, passando così da premier intransigente e poco incline alla ricerca del consenso, a capo di un esecutivo disposto a negoziare e a fare delle concessioni agli altri partiti, al Psoe in primis. 

Intanto, la crisi interna in casa socialista ha tenuto banco nei media spagnoli nel corso degli ultimi trenta giorni. Nelle file del Psoe si è consumato infatti una sorta di assassinio politico, degno dei migliori gialli, che ha dilaniato il partito. Il tutto è iniziato con la defenestrazione dell’ex segretario Pedro Sánchez da parte dei cosiddetti «baroni territoriali» del partito (capitanati da Susana Díaz, l’ambiziosa presidente dell’Andalusia) che, durante una riunione del direttorio nazionale, hanno messo in minoranza lo stesso Sánchez, costringendolo alle dimissioni. Un contributo decisivo a questo golpe interno lo ha dato anche una figura storica del partito come l’ex premier Felipe González e la campagna mediatica ostile a Sánchez orchestrata dal gruppo editoriale proprietario del giornale «El Pais». La «colpa» di Sánchez, sostenuto nella sua posizione dalla maggioranza dei militanti del suo partito ma non dai pesi massimi dello stesso, è stata quella di essersi sempre dichiarato contrario a un governo guidato dal nemico storico Rajoy (il suo famoso «no è no» lo ha ripetuto con coerenza fino alle estreme conseguenze, tanto che si è dimesso da deputato proprio nel giorno dell’investitura di Rajoy).

L’ex segretario del Psoe però ha pagato anche per la sua volontà di volere formare un governo progressista assieme a Podemos. Questa opzione era invisa e considerata pericolosa dall’establishment spagnolo (il sistema finanziario e le grandi banche non hanno mai nascosto la loro contrarietà alla presenza del movimento della sinistra radicale di Podemos in un possibile governo) ed è stata fatta abortire con la forza, come raccontato dallo stesso Sánchez in un’intervista televisiva. Si è assistito di fatto a una vera e propria intromissione dei poteri forti nella vita politica che ha prodotto una lacerazione nel partito socialista. Con la decisione di astenersi nell’investitura di Rajoy, il Psoe si è immolato per la causa di formare un governo nell’interesse del Paese, trovandosi però ora senza un leader, con il partito diviso in varie correnti e con prospettive nefaste. Di questa debolezza e confusione all’interno dei socialisti ne ha subito approfittato il leader di Podemos Pablo Iglesias, ritagliando per sé e per il suo partito il ruolo di unica vera opposizione a quello che ha definito il governo della «Triplice alleanza» (Pp, Ciudadanos e Psoe).

L’esecutivo di Rajoy si trova infine sulla strada una terza grande questione spinosa da affrontare: la sfida indipendentista catalana. Il presidente del governo catalano Carles Puigdemont ha infatti da tempo annunciato che nel settembre prossimo anno si celebrerà un referendum sull’indipendenza da Madrid. Puigdemont e i partiti autonomisti che formano il governo catalano in carica da gennaio affermano di essere determinati ad andare avanti nel loro progetto secessionista (chiamato di «disconnessione catalana»). I fautori del quesito referendario sperano di trovare questa volta una soluzione consensuale con il governo di Rajoy per poterlo effettuare legalmente, dato che nel 2014 già si svolse un referendum analogo, ma che fu dichiarato previamente illegittimo dalla Corte Costituzionale.

In questo contesto di relazioni tese tra Madrid e Barcellona, si è inserito recentemente un altro elemento che ha fatto infuriare i catalani. La stessa Corte costituzionale ha revocato il divieto dello svolgimento delle corride in Catalogna, cancellando di fatto la scelta antitaurina votata nel 2010 dal Parlamento catalano. Questo è stato interpretato a Barcellona come l’ennesima sentenza politica in chiave anti-catalana voluta dal Pp, un partito che vede nella corrida un simbolo dell’unità di Spagna e che ha approvato nel 2015 proprio una legge che considera la tauromachia come «patrimonio storico e culturale nazionale». Molti catalani hanno considerato questo fatto come l’ennesima restrizione alla loro libertà di legiferare sul territorio della propria «nazione» e sono scesi per le strade a gridare una volta di più la loro rabbia verso Madrid al grido di «indipendenza».

I grattacapi non mancano dunque per Rajoy e ci si interroga anche come il premier affronterà altri temi chiave di questa legislatura, come la riforma della scuola e delle pensioni, adesso che il Pp dovrà governare in minoranza e vedersela con un’opposizione composita (e non più solo fatta da un unico partito come in passato). Rajoy intende governare per quattro anni e ha ripetuto più volte nel suo discorso di investitura la parola «dialogo», dichiarandosi disponibile a negoziare l’approvazione delle leggi con la maggior parte dello spettro politico parlamentare, ma ha anche detto che non modificherà le leggi più importanti approvate nel suo precedente mandato (riferendosi soprattutto alla riforma del mercato del lavoro che ha consentito una minima diminuzione della disoccupazione, da poco scesa sotto la soglia del 20%, ma ha portato anche molta precarietà occupazionale).

È poco probabile quindi che il governo Rajoy possa durare un’intera legislatura, ma è difficile prevederne la durata. Alcuni commentatori politici ritengono però che se Rajoy dovesse finire sin da subito costantemente in minoranza alle Cortes, il premier potrebbe sciogliere il Parlamento e convocare nuove elezioni già fra sei mesi. Questo gli consentirebbe di approfittare dell’attuale debolezza del Psoe e di affrontare con più forza la sfida indipendentista catalana in nome dell’unità di Spagna.