Le schiave dell'esercito imperiale

Una sentenza di Seul riporta alla ribalta il tema delle «donne di conforto» sfruttate sessualmente dall’esercito giapponese durante la Seconda guerra mondiale
/ 01.02.2021
di Giulia Pompili

L’ambasciata giapponese in Corea del sud si trova dietro piazza Gwanghwamun, la piazza principale di Seul, nel cuore pulsante della politica, a poche centinaia di metri da quella americana. Dieci anni fa, durante uno dei momenti più tesi delle relazioni tra Giappone e Corea del sud, di fronte a quell’edificio fu posizionata una scultura degli artisti Kim Seo-kyung e Kim Eun-sung. La «Statua della pace» rappresenta una ragazza seduta su una sedia, lo sguardo fisso e le mani chiuse in due pugni. Tutti i dipendenti dell’ambasciata giapponese sono costretti a vederla ogni volta che vanno a lavorare. Non solo: ogni mercoledì attiviste e membri delle associazioni civili raggiungono quella statua, la puliscono, la coprono con le sciarpe se fa freddo, espongono cartelli e declamano slogan per chiedere al Governo giapponese una cosa: le scuse formali.

Per capire l’Asia orientale e i rapporti diplomatici tra i Paesi più importanti dell’area, bisogna partire dalla storia. E la storia più controversa e difficile da superare per la diplomazia di Tokyo e Seul è quella che riguarda le cosiddette «comfort women», le «donne di conforto»: si parla di circa duecentomila ragazze, anche molto giovani, che durante l’occupazione giapponese in Corea furono strappate alle famiglie per fare da schiave sessuali dell’esercito imperiale. È un frammento del passato nipponico molto discusso: non si è mai arrivati a una teoria riconosciuta a livello internazionale. Secondo la versione giapponese, infatti, quelle donne non erano vittime ma meretrici, pagate per i loro «servizi».

All’inizio del gennaio scorso il Tribunale distrettuale centrale di Seul ha condannato il Governo giapponese a pagare più di 91mila dollari per ognuna delle 12 «comfort women» che fecero causa 5 anni fa. Il primo ministro giapponese, Suga Yoshihide, ha subito dichiarato che il tribunale non aveva il diritto di deliberare contro un altro Stato, ed era quindi in violazione della legge internazionale, tanto che Tokyo ha deciso di non ricorrere in appello. Era la prima volta che un tribunale locale si esprimeva su una questione così delicata per l’opinione pubblica. La sentenza ha riacceso antichi risentimenti tra i due Governi, ma soprattutto tra le persone. Oggi in Asia orientale sono soprattutto le vecchie generazioni a tramandare il ricordo di quel periodo di guerra e dell’occupazione.

Dal 1945, a seguito di diversi accordi firmati con la Corea, il Giappone effettua ogni anno cospicue donazioni alle associazioni delle vittime, ma non ha mai pagato un formale risarcimento alle «donne di conforto» (che implicherebbe il riconoscimento di un danno arrecato) e non ha mai espresso le scuse formali. Si tratta di un cerimoniale ben preciso, considerato estremamente importante, in cui si pronuncia una formula di scuse accompagnata da un inchino profondo.

Ne Le Malerbe, una graphic novel tra le più importanti sul tema che racconta la storia di Yi Okseon nell’estate del 1942, ci sono tre pagine nere. Sono le pagine in cui la fumettista coreana Keum Suk Gendry-Kim, autrice della ricostruzione pubblicata in italiano da Bao publishing, deve parlare del primo stupro subito da Yi Okseon, che all’epoca aveva 16 anni. Era stata rapita, probabilmente da uomini coreani, caricata su un treno merci insieme ad altre ragazze, per raggiungere un bordello in Cina. «Su una parete all’entrata erano appese delle targhette di legno», racconta Yi. «Sopra c’erano scritti dei nomi in giapponese anche se, nella maggior parte dei casi, si trattava di donne coreane portate lì con l’inganno o con la forza. I soldati sceglievano le donne guardando i nomi scritti sulle targhe di legno. I soldati giapponesi erano tutti giovani, così giovani che non avevano motivo di picchiarci. Quando si trattava invece di soldati di rango più alto, spesso scattava la violenza».

È con la letteratura, i film e le serie Tv che la Corea del sud, negli ultimi anni, sta cercando di sensibilizzare l’opinione pubblica internazionale sul tema delle «donne di conforto». Ed è soprattutto la letteratura a far uscire la questione dall’ambito più puramente diplomatico per farla tornare a quello che è: una terribile vicenda che ha per vittime delle donne. La storia di Yi Okseon somiglia a quella di Hong Jae-hee, protagonista del romanzo Le Figlie del Dragone (Neri Pozza Editore) scritto da William Andrews. Qui la violenza e la sofferenza raccontata dalla nonna alla nipote può sembrare fiction, ma somiglia ai racconti fatti dalle decine di donne che sono sopravvissute alla guerra del Pacifico. Perché le «comfort women» non erano solo coreane.

Un altro libro che ha cambiato la percezione del pubblico internazionale sull’argomento si chiama Storia della nostra scomparsa (Fazi editore). L’autrice Jing-Jing Lee, nata e cresciuta a Singapore, racconta la storia della sua famiglia, in particolare di sua nonna Wang Di. Dall’arrivo dei giapponesi allo stravolgimento della vita quotidiana, fino alla regola non scritta per tutte le giovani per evitare i bordelli: sposarsi oppure travestirsi da uomini. Qualunque accordo tra le diplomazie di Tokyo e Seul per cercare di recuperare le relazioni dovrà tenere conto di quel ricordo e di tutto quel dolore.