Gli occhi scuri di Elena diventano umidi, mentre racconta il suo incubo durato quattro anni. «La sera, quando i bambini andavano a letto, lui arrivava, mi mostrava la pistola e io dovevo fare quello che voleva. Cercavo di resistere, gli dicevo che ero distrutta per il lavoro nei campi, che lo odiavo, ma lui minacciava di fare male ai miei figli». Le mani scarne, dalle unghie rotte, ancora sporche di terra, tremano mentre aggiunge, sottovoce «ora non mi resta che cercare di andare avanti».
A fare violenza a Elena, 33 anni, originaria della Romania, è stato un uomo di oltre 60 anni, sposato, con due figli, proprietario di alcune serre nelle campagne di Vittoria, in provincia di Ragusa (Sicilia). In quella zona si producono i pomodori esportati nei mercati esteri per essere consumati crudi oppure come passata. Un giorno Elena è riuscita a scappare, ha denunciato il suo aguzzino alle forze dell'ordine, riuscendo anche a raccogliere le testimonianze di due persone, ed è entrata in un programma di protezione. Dopo due mesi, però, ha dovuto abbandonare il percorso perché aveva bisogno di lavorare. Lui, «il padrone», non è mai stato processato. «Qualche mese fa me lo sono trovato fuori casa, che mi diceva di tenere la bocca chiusa».
La storia di Elena è solo una delle tante che accadono alle raccoglitrici di pomodori – sono oltre 5mila nell'area di Vittoria, secondo alcune stime –, documentate da associazioni, ricercatrici universitarie e parroci come don Beniamino Sacco, il primo a denunciare, anni fa, «i festini agricoli nelle campagne», e a impegnarsi per arginare il fenomeno. Nonostante i suoi sforzi, non c'è stato un miglioramento. Anzi, secondo le lavoratrici la situazione è peggiorata a causa della crisi, dell'arrivo, dei flussi migratori, di nuova manodopera a basso costo e della recente riforma del lavoro. Le immigrate lavorano anche 12 ore al giorno, per 500 o 600 euro al mese, in serre dove tra aprile e ottobre la temperatura raggiunge i 50 gradi centigradi. Non sono arrivate in Italia per prostituirsi, ma si trovano, loro malgrado, a vivere in un sistema che spesso prevede che per ottenere e mantenere il posto di lavoro debbano accettare uno scambio sessuo-economico. Come spiega Emanuele Bellassai, per anni operatore Caritas, «ribellarsi e denunciare gli abusi alle forze dell'ordine è quasi impossibile: le lavoratrici non vengono facilmente credute e soprattutto non si riescono a raccogliere prove sufficienti per un processo». Inoltre, il pregiudizio «non è violenza perché se la sono cercata» resta diffuso. La situazione di difficoltà è aggravata dal fatto che molte donne vivono isolate, in magazzini con pavimenti in terra battuta e soffitti di plastica, dispersi tra le coltivazioni, senza mezzi di trasporto.
Il fenomeno delle molestie, del ricatto e degli stupri non è limitato alla Sicilia, c'è in altre regioni, come in Puglia dove, secondo i dati del sindacato Flai Cgil, alla coltivazione e raccolta di uva, olive, pomodori, ciliege, carciofi, arance, lavorano tra le 30 e le 40mila donne (italiane e straniere). «Su dieci datori di lavoro della nostra zona, non voglio dire sette, ma cinque ci provano e pesantemente, di più con le straniere che con le italiane, perché è quasi un diritto, uno ius primae noctis odierno» spiega Rosaria Capozzi, responsabile del progetto Aquilone di Foggia. Le lavoratrici non solo sono pagate meno degli uomini, 27 euro contro 35 a giornata, quando la retribuzione dovrebbe essere di circa 54 euro, ma vengono costrette anche a turni sfiancanti nei magazzini. «La quantità di offerta di lavoro e la mancanza di denunce sono tali che rifiutare le avances significa perdere il posto» dice Maria Viniero, ex bracciante, adesso sindacalista, nella segreteria della Flai Cgil di Bari. «Si tratta di situazioni diffuse. Le lavoratrici vengono a raccontarmele, ma poi non vogliono nemmeno pensare di procedere per le vie legali».
Deve fare riflettere, a questo riguardo, quanto sta succedendo con il processo Dacia, a Taranto. Dopo che nel 2011 le forze dell'ordine hanno scoperto centinaia di donne, di nazionalità rumena, costrette a prostituirsi per lavorare nelle campagne a un salario da fame, sono state arrestati e poi rilasciati 17 caporali. «Noi come sindacato ci siamo costituiti parte civile, ma probabilmente l'inchiesta verrà archiviata perché le testimoni non sono più rintracciabili» spiega Giuseppe De Leonardis, segretario generale della Flai Cgil BAT (Barletta, Andria, Trani).
Alessia e Alexandra, braccianti quarantenni di origine rumena, da dieci anni residenti in provincia di Bari, descrivono un vero e proprio sistema di ricatto. «La mattina, prima di arrivare nei campi, il padrone si ferma al bar, compra il cornetto e il caffè e li porta in auto, mettendoli vicino al volante. Se tu li prendi, significa che hai accettato la sua offerta e cioè che vuoi andare con lui. Se invece ti compri la colazione da sola, lui capisce che non ci stai e il giorno dopo non ti chiama più. Siccome noi rifiutiamo, non riusciamo mai a lavorare più di qualche giorno di fila».
In Puglia non basta cambiare «padrone» per sfuggire al sistema dello sfruttamento: bisogna fare i conti con i caporali. Nessuno vuole mettersi contro gli intermediari che reclutano le braccianti nelle diverse aree e che spesso sono proprietari dei pullman che le portano da una provincia all'altra (con viaggi estenuanti prima dell'alba e nel tardo pomeriggio). I caporali controllano le donne nei campi e compiono loro stessi gli abusi. C'è poca fiducia nel cambiamento che le istituzioni si aspettano dopo che è stata approvata, lo scorso ottobre, la nuova legge contro il caporalato. «Sappiamo chi fa cosa, chi ricatta, conosciamo le famiglie che si sfasciano perché ci sono donne sposate che restano incinta durante il lavoro, eppure nessuno di noi si ribella perché se perdiamo il lavoro non ci resta più nulla» dice Davide, 45 anni, bracciante agricolo come la moglie e con una figlia di 18 anni.
Secondo Leonardo Palmisano, sociologo e co-autore, con Yvan Sagnet, del libro «Ghetto Italia» (Fandango), le violenze e i ricatti succedono non soltanto nel sud: al centro e al nord del Paese non va molto meglio. A rischio anche i figli delle braccianti, molti dei quali non vanno a scuola, in particolare le bambine dai 10 anni in su che restano sole in casa e possono facilmente diventare a loro volta vittime.
Le lavoratrici dell'agricoltura cercano di resistere come possono, attraverso escamotage continui. «Bisogna fare in modo di non restare mai sole con i capi e non rispondere ai complimenti» racconta Tulipa, 22 anni. Vive con il marito Pavel: hanno un figlio di due anni, rimasto in Romania con la nonna. «Io voglio lavorare e basta. Se avessi in mente di fare altro saprei dove andare e guadagnerei di più», spiega Petra, 37 anni, tenendo in braccio il bimbetto di 6 mesi. «Per 8 anni ho avuto un contratto, ma poi, quando sono rimasta incinta, mi hanno licenziata. Questa è terra di nessuno». Alessia, 29 anni, tre figli, un marito disoccupato, aveva un capo che le metteva le mani addosso fin dalle prime ore del mattino. «Mi diceva cose sporche, si avvicinava, mi toccava. Io ho una famiglia da mantenere, va bene lavorare dodici ore di fila tutti i santi giorni, ma non accetto di essere umiliata così. Un giorno mi sono ribellata e l'ho spinto via. Lui allora mi ha licenziata. Sono andata al sindacato e gli ho fatto causa perché mi deve ancora pagare tre mesi di arretrati».
Nelle campagne siciliane e pugliesi è alta la diffidenza verso la stampa. Nelle foto le donne non mostrano il volto e i loro nomi sono stati cambiati: temono di perdere il posto, di non riuscire a trovarne un altro e di subire ritorsioni. Nonostante tutto, hanno deciso di non stare zitte.
Le schiave dei campi di pomodori
Lavorano come braccianti nelle serre della zona di Vittoria, in Sicilia, e sono le protagoniste italiane e straniere di tristi storie di sfruttamento agricolo e maltrattamento sessuale
/ 12.12.2016
di Stefania Prandi
di Stefania Prandi