Un afroamericano alla guida del Pentagono per la prima volta nella storia. Un ispanico come segretario alla Sanità, Ministero-chiave per gestire le vaccinazioni. Un’asiatica per negoziare con la Cina. Joe Biden continua a comporre il suo futuro esecutivo all’insegna dell’inclusione: prima le tante donne al governo dell’economia e della comunicazione, ora un rafforzamento delle minoranze etniche in ruoli di alta visibilità e potere. Eppure non tutto fila liscio, le sue scelte fanno anche degli scontenti.
Diversità etnica contro supremazia dei civili sui militari: Biden ha fatto una scelta delicata, e irta di ostacoli, con la nomina del primo afroamericano alla guida della Difesa. Il 67enne generale a riposo Lloyd Austin ha un curriculum militare impeccabile, nessuno può contestare la sua professionalità e credibilità per la direzione del Pentagono. È l’unico nero ad aver guidato il Central Command, il dispositivo da cui dipendono le truppe americane in Iraq, Afghanistan, Siria e Yemen, tutti i fronti caldi su cui ancora operano dei soldati Usa. In pensione dal 2016, verrebbe richiamato a servire il Paese ma stavolta con un incarico ministeriale, uno dei posti-chiave nell’esecutivo. Non è la prima volta che un generale afroamericano assume un incarico di tale rilievo: il precedente più illustre è quello di Colin Powell che fu segretario di Stato di George W. Bush. Un conto è dirigere il Dipartimento di Stato, però, altra cosa è prendere la guida della Difesa.
Per tradizione gli americani sono sospettosi verso l’eccessiva autonomia delle loro forze armate, tant’è che per chiamare un militare a guidare quel Ministero occorre votare una deroga speciale. È accaduto di recente quando Donald Trump nominò allo stesso incarico un altro ex-generale, Jim Mattis. All’epoca proprio dai ranghi del partito democratico si levarono proteste. Bisognerà che Biden raccolga una maggioranza di voti al Senato – quindi con ogni probabilità anche dai repubblicani – perché il suo prescelto possa essere confermato. Non sfugge il fatto che la notizia del generale Austin alla Difesa sia trapelata poche ore prima da un incontro ad alta tensione, fra Biden e la National Association for the Advancement of Colored People (Naacp), una delle più importanti organizzazioni che difendono la comunità afroamericana. Da diversi giorni il presidente eletto subisce il mugugno di varie componenti del suo partito. L’ala sinistra in particolare incomincia a mostrare insofferenza per le nomine troppo legate all’establishment. I parlamentari afroamericani hanno espresso in modo molto esplicito il loro malcontento per quella che ritengono essere una loro sotto-rappresentazione nei ranghi del futuro esecutivo. I voti dei neri sono stati importanti per assicurare la vittoria di Biden. Ora il rischio è quello di dare l’impressione di una «lottizzazione etnica».
Confermato dalla scelta dell’ispanico Xavier Becerra per il dicastero della Sanità. Anche lui comunque ha un curriculum eccellente: da ministro della Giustizia della California ha difeso con strenue battaglie legali la riforma sanitaria detta Obamacare contro gli assalti di Trump. Nessuna nomina di Biden ha la garanzia di diventare definitiva, tutti gli incarichi più importanti devono essere confermati dal Senato. Salvo una sorpresa clamorosa nelle elezioni suppletive del 5 gennaio in Georgia, dove si assegnano gli ultimi due seggi senatoriali rimasti vacanti, la maggioranza della Camera alta dovrebbe rimanere in mano ai repubblicani. Che non ratificheranno a scatola chiusa le scelte di un presidente democratico.
Sarà un «falco», o meglio un’aquila al femminile, a trattare con la Cina nell’Amministrazione democratica. Joe Biden ha designato il futuro Trade Representative, ruolo cruciale nei negoziati commerciali: Katherine Tai. Il paradosso è che si tratta di una 42enne di origini familiari cinesi, che parla perfettamente il mandarino, e i cui genitori immigrarono in America da Taiwan. La Tai ha perfino insegnato in una università cinese, la Zhongshan University di Guangzhou, ex-Canton, la megalopoli industriale nella regione meridionale del Guangdong. Sulle sue radici etniche la Tai è di una discrezione assoluta, non frequenta social media, e questo dovrebbe aiutarla nel corso della conferma: il profilo basso offre meno pretesti agli attacchi dei repubblicani al Senato. Ancor di più l’aiuterà il fatto che la Tai, malgrado la giovane età, è una grande esperta di regole del commercio globale, ed ha una posizione intransigente sulla Cina. In continuità con Donald Trump, forse più inflessibile di lui.
In un recente convegno la Tai definì «difensiva» la politica commerciale di Trump, e auspicò «una strategia aggressiva». Il suo curriculum è di tipo giuridico. Si è fatta le ossa tra il 2007 e il 2014 come legale degli Stati Uniti proprio in una serie di cause contro la Cina, davanti al tribunale del commercio internazionale della World Trade Organization (Wto). Poi ha diretto il dipartimento legale di una commissione parlamentare che si occupa proprio di dispute commerciali con l’estero. Ha collaborato per fare approvare anche dai democratici il nuovo trattato negoziato da Trump con Canada e Messico. Ha sostenuto la linea dura contro la Cina per le sanzioni sulle importazioni di prodotti fabbricati usando prigionieri politici o condannati ai lavori forzati nello Xinjiang. È favorevole a penalizzare quelle fabbriche del Messico che violano i diritti dei lavoratori. Insomma la Tai rappresenta a tutti gli effetti la «versione di sinistra» del protezionismo di Trump: altrettanto dura se non di più, visto che include gli abusi contro i diritti umani fra i temi che possono fare scattare sanzioni commerciali.
La prima donna appartenente a una minoranza etnica che ricopre questo ruolo determinante eredita una quantità notevole di dossier aperti. Ci sono dazi sulle importazioni cinesi che colpiscono un volume di acquisti annui pari a 370 miliardi di dollari; e una «mezza tregua» sull’escalation dei dazi siglata a gennaio da Trump e Xi Jinping, le cui condizioni includono massicci acquisti di derrate agricole Usa da parte di Pechino. C’è il contenzioso con l’Unione europea, in parte legato all’antico dossier dei sussidi statali Airbus-Boeing.
In Cina l’annuncio del suo nome è stato accolto come un segnale tutt’altro che favorevole. A differenza di Trump, la Tai, arruolerà gli alleati per creare una coalizione contro la Cina. L’annuncio sulla Tai è stato accolto come un segnale di diversificazione etnica dalla sinistra del partito democratico e dai media progressisti, impegnati a tenere il conto di tutte le donne, neri, ispanici o asiatici che Biden sta designando. È una conta fuorviante: un afroamericano al Pentagono, un ispanico al comando della polizia di frontiera, una discendente di cinesi al commercio estero, non sono portatori di politiche «etniche» o di un’agenda radicale.
Ma la transizione Trump-Biden continuerà ad essere turbolenta, anche se la certificazione del risultato elettorale non è più contestabile. Una prova del clima che verrà: il riemergere dello scandalo Hunter Biden, figlio del presidente eletto Joe Biden, sotto indagine per presunte irregolarità o reati di natura fiscale. Biden Junior è già stato al centro di controversie e scandali, in particolare per gli affari realizzati in Ucraina e in Cina, sfruttando il ruolo del padre quando questo era il vice di Barack Obama. L’annuncio dell’inchiesta fiscale è arrivato cinque giorni prima di una scadenza istituzionale della massima importanza: questo lunedì 14 dicembre Joe deve essere formalmente dichiarato presidente degli Stati Uniti da parte del Collegio elettorale, che raccoglie le certificazioni ufficiali dei risultati da parte dei 50 Stati.
È a quel punto che il risultato dell’elezione diventa a tutti gli effetti irreversibile, cancellando ogni residua speranza per gli ultimi tentativi di Trump di invalidare il voto e di ritardarne la ratifica. Le vicende di Hunter hanno già fornito materiale abbondante per le accuse della destra durante la campagna elettorale. È proprio Hunter all’origine della vicenda che poi si è rivoltata contro Trump e ha portato all’apertura di un procedimento di impeachment contro di lui (impeachment votato dalla Camera a maggioranza democratica, bocciato dal Senato a maggioranza repubblicana). Fu per incastrare Hunter Biden in uno dei suoi affari all’estero, che Trump fece pressione sul governo dell’Ucraina e minacciò di sospendere aiuti militari a quel Paese, se il governo di Kiev non avesse proseguito le indagini sul ruolo del figlio di Joe in una società locale.
In campagna elettorale Trump tornò anche sull’altra pista, quella del business cinese di Hunter. Joe ha sempre negato di essere stato coinvolto negli affari del figlio, e li ha difesi come legittimi. Non ha mai del tutto fugato il sospetto che ci fossero dietro dei conflitti d’interessi. Hunter ha avuto una vita segnata da tossicodipendenza, controverse relazioni sentimentali, e affari procacciati grazie alla fama e all’incarico del padre. I democratici devono fronteggiare uno scenario inquietante. La «campagna giudiziaria» che per quattro anni ha preso di mira Trump, senza peraltro assestargli colpi decisivi, ora potrebbe cambiare il segno e prendere di mira il nuovo inquilino della Casa Bianca. I democratici sanno che i rapporti di forze in seno alla magistratura sono cambiati nell’ultimo quadriennio, con l’infornata di nomine di giudici conservatori da parte dello stesso Trump.
L’inchiesta su Hunter potrebbe sgonfiarsi o rimanere comunque senza conseguenze politiche per il padre. Arriva però in un momento delicato e a poche settimane da un’altra elezione, quella che il 5 gennaio in Georgia assegnerà due seggi senatoriali e deciderà la maggioranza della Camera Alta.
Le scelte (rischiose) di Joe
Nomine - Un afroamericano alla guida del Pentagono, un ispanico alla Sanità, un falco-donna di origini cinesi per trattare con la Cina. E inoltre sul futuro presidente incombe l’ombra dello scandalo del figlio Hunter
/ 14.12.2020
di Federico Rampini
di Federico Rampini