«È uno che non sa controllarsi su Twitter, i collaboratori gliel’hanno dovuto togliere. Voi gli dareste un arsenale nucleare?». Fu una delle più feroci battute che Barack Obama lanciò contro Donald Trump nelle ultime giornate della campagna. Ora dovrà passargli tutti i poteri presidenziali, atomica inclusa. E ha inizio la demolizione di Obama. La sua «legacy», l’eredità che sperava di lasciare alla storia, verrà smontata. Obama è l’altro grande sconfitto subito dopo Hillary Clinton. La sua uscita di scena poteva essere maestosa, trionfale. Sarà mesta e amara. Non si direbbe, dal grande fair play delle sue prime parole: «La transizione deve essere facile e fruttuosa. Non è un segreto che lui ed io abbiamo avuto delle divergenze notevoli, ma ora quello che conta è il bene del paese».
La demolizione di Obama, l’hanno cominciata gli elettori. Il presidente può consolarsi con quel 54% di consensi che continuano a tributargli, altissimo alla fine di un secondo mandato. Ma gli brucia il tradimento della classe operaia, in quegli Stati del Midwest che la destra aveva gettato in una crisi drammatica e che Obama salvò nel 2009: con le nazionalizzazioni di General Motors e Chrysler, con la maxi-manovra di 800 miliardi di investimenti pubblici. Tutto cancellato, dimenticato, per eleggere un imitatore di Ronald Reagan che ha promesso di ridurre le tasse sui ricchi e sulle imprese. La demolizione promette di essere violenta, come gli interventi delle ruspe nei cantieri edili di Trump.
In cima ai bersagli c’è «Obamacare», la riforma sanitaria che per un tempo il presidente democratico considerava il suo gioiello, e si era già parecchio appannata nel giudizio dell’opinione pubblica. C’è l’accordo di Parigi sull’ambiente, sul quale Trump sposa in pieno la tesi negazionista dei petrolieri. C’è la timida e parziale riforma dell’immigrazione con cui Obama mise al riparo dalle espulsioni almeno alcune categorie (i giovani cresciuti qui da bambini, che non conoscono altro paese se non gli Stati Uniti). C’è la legge Dodd-Frank che ha riformato banche e mercati finanziari rendendo un po’ più difficile la speculazione. «Cancellare Obama» è una delle poche parole d’ordine su cui l’affarista outsider e i notabili della destra sono sempre stati d’accordo.
È ancora più lungo l’elenco di quelle aspirazioni, ambizioni e promesse sulle quali Obama è rimasto un presidente incompiuto. Tutto quello che lui sperava di lasciare a Hillary, nella staffetta ideale che avrebbe completato la sua opera. Intervenire sulle armi per fermare le stragi continue. Alzare il salario minimo federale per ridurre le diseguaglianze. Riformare le leggi sui finanziamenti elettorali, attenuando l’impatto micidiale della sentenza Citizen United con cui la Corte suprema ha tolto ogni limite ai soldi delle lobby. Intervenire sul diritto allo studio, sul dramma dei debiti studenteschi che trasformano l’American Dream in un miraggio. L’elenco delle riforme incompiute corrisponde spesso al programma di Bernie Sanders. Obama si è trovato fra due fuochi: l’ala sinistra del partito lo accusava di non osare abbastanza; il Congresso dominato dai repubblicani gli bocciava tutte le riforme perché considerate troppo radicali, anti-business. Obama si ritrova a invidiare Trump per quella robusta maggioranza a Camera e Senato, cui presto si aggiungerà la Corte suprema: il presidente uscente ebbe invece un corto biennio di maggioranze congressuali, e neanche entusiaste.
I primi 100 giorni di Donald Trump saranno fuochi d’artificio. Guerra alla burocrazia, stop all’ambientalismo, e soprattutto una maxi-manovra di investimenti pubblici per le infrastrutture di sapore «rooseveltiano» e quindi bipartisan. Ora ci vuole la squadra per farlo. La vittoria è arrivata così inattesa, che Trump ha uno staff minuscolo rispetto a quello di Hillary. L’establishment repubblicano per la maggior parte aveva tenuto le distanze. I pochi politici di destra che stavano al suo fianco erano considerati dei marginali: ora hanno vinto la lotteria. C’è la calca per candidarsi ai tanti posti liberi negli organigrammi dell’esecutivo: i consiglieri della Casa Bianca, i vertici dei ministeri, le agenzie federali. In tutto 4.000 poltrone dello spoil-system.
Il tycoon-outsider sarà magnanimo o vendicativo? Premierà i fedelissimi della prima ora o spalancherà le porte all’establishment conservatore?
Dopo il suo primo summit con Obama, giovedì Trump è andato subito a incontrare il presidente della Camera Paul Ryan e il leader del Senato Mitch McConnell. Due repubblicani, essenziali per fare passare la sua agenda di riforme: il piano dei 100 giorni glielo deve approvare il Congresso, se si tratta di spese pubbliche, leggi fiscali, trattati di libero scambio. Ryan e McConnell avevano dato un endorsement tardivo e riluttante a Trump. Sono due «conservatori fiscali» e neoliberisti: in linea di principio non sono favorevoli né ai maxi-investimenti pubblici che creano deficit, né alla cancellazione degli accordi di libero scambio. Per accattivarseli Trump può proporgli di votare subito l’abrogazione di Obamacare, la riforma sanitaria, un tema unificante a destra.
Il primo cerchio magico attorno a Trump è un gruppo ben identificato. Tre vecchi notabili del partito che lo appoggiarono presto: il governatore del New Jersey Chris Christie, l’ex sindaco di New York Rudolph Giuliani, l’ex leader della Camera Newt Gingrich. Christie è in lizza con un altro notabile, il presidente del partito Reince Priebus, per fare il capo-staff della Casa Bianca, incarico di grande potere. Giuliani è chiacchierato come prossimo ministro di Giustizia anche se lui smentisce. Altro uomo-chiave, già impegnato in un ruolo di punta nella squadra di transizione, è il senatore dell’Alabama Jeff Sessions, che potrebbe diventare segretario alla Difesa. Per quel posto, o quello ancora più influente di National Security Advisor, è in lizza anche il generale Michael Flynn. Come segretario di Stato circolano i nomi di John Bolton, neocon dell’èra Bush che fu ambasciatore all’Onu, e del senatore Bobb Corker che presiede la Commissione Esteri. Al Tesoro potrebbe andare un giovane banchiere di Goldman Sachs, Steven Mnuchin, che fu il tesoriere della campagna. Oppure Jamie Dimon di JP Morgan.
Ma Trump potrebbe creare molte sorprese, per esempio attingendo al mondo del business. Tra i suoi alleati ci sono petrolieri come Forrest Lucas e Harold Hamm, nonché il miliardario hi-tech della Silicon Valley Peter Thiel, cofondatore di Paypal. La scelta degli uomini darà i primi segnali sulla caratura della presidenza Trump e quindi anche sui 100 giorni. Sarà una Casa Bianca «familistica» come la sua campagna elettorale, con ruoli di punta per i figli Eric e Ivanka? Premierà gli stravaganti fanatici come Sarah Palin e lo sceriffo Arpajo? O invece farà una grossa campagna acquisti tra figure rispettabili e collaudate? Manterrà la promessa di un codice etico, vietando i passaggi dal lobbismo alla politica e viceversa?
Sui contenuti dei 100 giorni lancia un segnale Gingrich: «Cinque grandi riforme strutturali, dal controllo del confine Sud al licenziamento dei burocrati incapaci». Trump ha promesso anche di «eliminare due regolamenti burocratici per ogni nuova legge approvata». Farà una guerra senza quartiere agli ambientalisti: «Via libera subito all’oleodotto col Canada che Obama vietò; stop ai pagamenti all’Onu per l’accordo sul cambiamento climatico». Aprirà il negoziato per cambiare il mercato unico nordamericano Nafta, e bloccherà l’iter di Tpp e Ttip. Ma più di ogni altra cosa i 100 giorni dovrebbero essere segnati dalla sua iniziativa neokeynesiana che piace alla sinistra: rifare le infrastrutture fatiscenti, dagli aeroporti alle stazioni, dalle strade alla rete elettrica. «L’America è diventata un paese del Terzo mondo», è stato un leitmotiv nei suoi comizi. Sarà una manovra pro-crescita, da fare invidia a tanti europei.
Intanto la sinistra si lecca le ferite come può. Emblematico il Day After dei giovani: sindrome da stress post-traumatico. Nelle scuole e nelle università, lo shock per l’elezione di Donald Trump è tale che devono intervenire le autorità accademiche. Come dopo una strage da sparatoria, o una grave calamità naturale. Gli educatori si mobilitano per offrire supporto, assistenza, conforto; più la garanzia che gli atenei restano dei luoghi di tolleranza multietnica.
«In tutta la mia vita – scrive il presidente della Columbia University, Lee Bolliger, nel suo appello agli studenti – non ricordo un simile senso di vulnerabilità tra studenti, docenti, personale universitario. Chi si sente in crisi ha l’opportunità di confidare e discutere le proprie ansie. Stiamo pianificando appositi incontri in tutti i dipartimenti universitari». La seconda parte della sua lettera aperta suona come una promessa di protezione: «Niente intolleranza o intimidazione. Noi resteremo fedeli ai nostri valori tra cui la difesa della libertà di espressione, il rispetto di tutte le diversità». Traspare dietro il linguaggio rassicurante il senso di angoscia degli studenti. C’è chi vede l’America istradata verso forme di autoritarismo e ricorda le minacce di Trump («Hillary in carcere», «nuove norme per punire i giornali che diffamano»). Ci sono studenti afroamericani spaventati dalle posizioni del neo-presidente contro il loro movimento BlackLivesMatter. Infine i tanti studenti immigrati o figli d’immigrati paventano espulsioni di massa per loro o i genitori.
Si può ironizzare sull’atteggiamento protettivo degli educatori. I giovani vanno tutelati dalle sconfitte elettorali? Forse dovrebbero rimboccarsi le maniche e preparare una rivincita, se Trump non gli sta bene. Stando ai dati sull’affluenza, non si può escludere che alcuni dei giovani manifestanti il giorno prima avessero disertato le urne, o disperso voti su candidati di protesta come l’ambientalista Jill Stein e il libertario pro-marijuana Gary Johnson.