Le relazioni pericolose

Per Credit Suisse si prospettano perdite miliardarie a seguito del fallimento di un cliente al quale aveva dato fiducia – Un buco che segue di poco le perdite generate dal fallimento della società inglese Greensill
/ 19.04.2021
di Marzio Minoli

«Ci risiamo!» Questo è uno dei tanti commenti sentiti in questi giorni dopo l’annuncio del fallimento di un fondo di investimento statunitense al quale Credit Suisse, assieme ad altre banche, aveva prestato miliardi di dollari. Insomma, sembra che la lezione del 2008 non sia ancora stata imparata completamente. Ma è così? Non proprio. Le cose sono diverse da quanto successo una dozzina d’anni fa.

Le vicende che vedono coinvolta la seconda banca elvetica, assieme a Goldman Sachs, Morgan Stanley e Nomura, tanto per citare le più conosciute, è dovuto ad un’operazione specifica e non ad un problema di «sistema», come fu nel 2008 e negli anni seguenti. Insomma, la cosa, al momento, è circoscritta e non ha lasciato strascichi sul mercato. Ma vediamo i fatti.

Il family office Archegos Capital Management, con sede a New York, è fallito lasciando dietro di sé una scia di perdite miliardarie. Un family office è una sorta di «boutique» nel mondo delle fiduciarie, specializzato nel seguire clienti molto facoltosi, sia per le questioni finanziarie ma anche per molti altri aspetti, dal trovare una casa alla scuola per i figli. Dal punto di vista finanziario Archegos operava come se fosse un hedge fund, quindi con operazioni molto aggressive sui mercati, utilizzando strumenti derivati anche abbastanza complicati, ben oltre le classiche opzioni o futures. Nel caso specifico, e se qualcuno volesse approfondire, il metodo utilizzato è stato quello del total return swap (TRS). Strumento che dal punto di vista legale non passa attraverso il mercato, essendo un contratto tra due parti.

Il fondo aveva delle grosse posizioni su titoli americani e cinesi, nel comparto dei media e della tecnologia. Posizioni aperte con diverse banche, tra le quali Credit Suisse. La particolarità delle operazioni è che, come detto, venivano usati questi TRS, i quali praticamente non mostrano l’esposizione totale del fondo, quindi le banche non erano a conoscenza di quanto esso fosse coinvolto con gli altri istituti, e concedevano prestiti per poter operare «a leva». In altre parole, semplificando, con 1000 franchi il fondo poteva entrare sul mercato per un controvalore, diciamo, di 10’000 franchi. Questa è la cosiddetta «leva».

Sono operazioni normali, che le banche fanno regolarmente, con clienti solidi e con operazioni trasparenti. Anche perché, accanto ai prestiti, si chiede di versare, come garanzia, una determinata somma, solitamente una percentuale del totale delle operazioni, la quale ben difficilmente supera il 10%. Ed è proprio qui che iniziano i problemi.

I titoli acquistati dal fondo, nella settimana iniziata lunedì 22 marzo, hanno iniziato a perdere valore. Ecco quindi che le banche hanno chiesto al fondo di investimento di versare ulteriori soldi come garanzia per coprire eventuali perdite. È il cosiddetto margin call, del quale si è sentito parlare. Ma Archegos ha risposto che di soldi non ne aveva più. Cosa succede dunque? Le banche iniziano a vendere i titoli di proprietà del fondo, per limitare le perdite e rientrare dei prestiti concessi. I primi a fare questa operazione sono state le americane Goldman Sachs e Morgan Stanley. E lo hanno fatto vendendo blocchi di titoli per miliardi e miliardi di dollari, facendo crollare il prezzo di queste azioni anche del 30%.

Credit Suisse, con Nomura, invece si è mosso tardi. Ha aspettato e quindi si è ritrovato a liquidare le posizioni dopo che avevano già perso molto. Da qui nascono le perdite. Credit Suisse ha già comunicato che ci si attende per il primo trimestre un risultato negativo di 900 milioni di franchi, tenendo conto di 4,4 miliardi di franchi di perdita legati alla vicenda Archegos. E non è tutto, sono già saltate due teste, quella di Lara Warner, responsabile del risk management e del dipartimento legale e quella di Brian Chin, a capo dell’investment banking.

Fin qui i fatti. Ma ora ci sono delle considerazioni da fare. Abbiamo detto che quanto fatto sono operazioni normali, che hanno una componente di rischio, certo, ma come in tutte le attività aziendali. In questo caso però ci sono due fattori che possiamo definire delle aggravanti che si sarebbero dovute tenere in considerazione prima di elargire miliardi.

La prima: dietro ad Archegos c’è qualcuno di ben preciso. Si tratta di Bill Hwang, un gestore di fondi di origini sudcoreane emigrato da adolescente negli Stati Uniti. Hwang una decina di anni fa era stato coinvolto in guai giudiziari e riconosciuto colpevole di utilizzo di informazioni riservate nelle sue operazioni finanziarie. Un fatto che, in teoria, lo avrebbe dovuto mettere per sempre sulle liste nere di tutte le banche d’investimento. Ma così non è stato. Dopo dieci anni, si è voluto ridare fiducia a Hwang. Perché? Semplicemente perché è una macchina da soldi capace di generare ricavi su ricavi per le banche. Dunque, nell’eterna lotta tra dipartimenti bancari, tra chi deve controllare i rischi e chi invece è chiamato a generare profitti, sembra che in questa occasione abbiano vinto i secondi. A parziale discolpa del risk management si può certo dire che Hwang, grazie all’utilizzo dei TRS, è stato capace di rimanere fuori dai radar delle banche. Ma questo non basta. Il nome e la reputazione del cliente erano conosciuti.

Il secondo punto è proprio l’utilizzo di questi strumenti derivati, che rendono molto complicato verificare la trasparenza delle operazioni. Qui di certo non è colpa delle banche. Sono strumenti assolutamente legali. Il problema, come spesso accade, sono le regole del gioco che lasciano ancora troppo spazio a queste operazioni.

Ora non rimane che attendere il 22 aprile, quando Credit Suisse presenterà i risultati trimestrali definitivi. La banca non è in pericolo. I requisiti di capitale rimangono solidi, perlomeno stando a quanto comunicato dall’istituto di credito in questi giorni, e questa è una buona notizia. Da capire però come reagiranno alcuni azionisti particolarmente influenti. Chiederanno altre teste? Vorranno, come già chiesto in passato, scorporare Credit Suisse? Oppure tutto passerà come se nulla fosse? Il problema è che Credit Suisse, ultimamente, è stato coinvolto in più operazioni dubbie dal punto di vista dell’opportunità.

Abbiamo parlato del caso Archegos, ma non bisogna dimenticare che poco tempo prima Credit Suisse è stato coinvolto anche nel fallimento della Greensill. In questo caso si è trattato di una società inglese specializzata nel concedere prestiti ad aziende, le quali garantivano questi prestiti tramite le fatture che avrebbero dovuto incassare. Purtroppo molte di queste aziende non sono state in grado di ripagare questi debiti, decretando di fatto il fallimento di Greensill. Credit Suisse aveva creato dei fondi di investimento su queste operazioni. Fondi che ad un certo punto non valevano più nulla.

Con Greensill Credit Suisse non perderà molti soldi. Infatti, aveva prestato alla società solo, si fa per dire, 160 milioni di dollari, in parte ripagati. A farne le spese saranno però i clienti che hanno acquistato i fondi creati dalla banca e si parla di 3 miliardi di dollari. Fortunatamente erano destinati solo a grossi investitori, e quindi il piccolo cliente non ne subirà conseguenze. Ma per Credit Suisse in questo caso, il problema è reputazionale. Aggiungendo questo al caso Archegos, sembra chiaro che ora uno dei principali obiettivi per Credit Suisse è quello di ricostruirsi un’immagine.