È stato Massimo D’Alema ad architettare la scissione, accusa Matteo Renzi di ritorno dalla Silicon Valley, dove è andato a smaltire l’amarezza del trasloco da Palazzo Chigi, che ovviamente considera temporaneo. L’ex premier ripropone quella stessa contrapposizione su cui cercò di fondare la sua proposta: da una parte lui, l’uomo rivolto al futuro, dall’altra la vecchia guardia da rottamare. Il processo si è arenato la prima domenica dello scorso dicembre, quando la maggioranza dei votanti ha bocciato senza appello la riforma costituzionale alla quale Renzi aveva legato le sue fortune politiche al punto da promettere, in caso di sconfitta, il ritiro a vita privata. Ha perduto e ha lasciato la guida del governo, ma non intende rinunciare alla segreteria del Partito democratico, dalla quale si è dimesso solo per esservi riconfermato. Una parte del Pd si è ribellata e un acceso dibattito ha portato alla scissione.
Per un’opinione pubblica disorientata, che non riesce a capire perché mai la politica si concentri su problemi così diversi da quelli che affliggono il Paese, le reali ragioni di questa spaccatura sono avvolte nel mistero. Perché certe figure storiche come D’Alema, appunto, o l’ex segretario Pier Luigi Bersani, o il presidente regionale della Toscana Enrico Rossi, hanno compromesso la compattezza del partito? Che cosa ha indotto il governatore pugliese Michele Emiliano prima ad accarezzare l’ipotesi scissionista, quindi a decidere di rimanere, ma in una posizione fortemente critica nei confronti del segretario, e di candidarsi alla successione? E perché contro la conferma di Renzi si è candidato anche Andrea Orlando, ministro della Giustizia proprio con Renzi, e ora con Gentiloni? In definitiva perché dividersi avvantaggiando i contendenti, siano essi le forze di centro-destra o gli anti-politici a cinque stelle?
Le ragioni sono tante. Tanto per cominciare ce n’è una puramente tecnica, il ritorno al meccanismo elettivo proporzionale implicito in una recente sentenza della Corte costituzionale. Mentre il maggioritario tende a tenere unite le forze politiche, pena l’irrilevanza nelle sedi rappresentative, votare col proporzionale favorisce il proliferare di gruppi e gruppuscoli alla ricerca di scampoli di potere. Un’altra ragione è la crescente insofferenza per il piglio decisionista di Renzi, da sempre accusato di arroganza e ora reso vulnerabile dall’esito del referendum. Ma ci sono ragioni più profonde, che trovano riscontro nello scenario internazionale. Il Partito democratico nacque con l’obiettivo di fondere la componente di provenienza comunista con la sinistra cattolica. Ma la fusione è mancata, l’amalgama non ha funzionato. Le due parti sono rimaste separate in casa. E da quando Renzi, che proviene dal mondo cattolico, ha provato a spostare l’asse del partito per guadagnare consensi fra i moderati delusi del centro-destra, è scattato il conto alla rovescia della rivolta.
Di fronte alla tentazione moderata si agita una sinistra protesa alla riscoperta di se stessa. Il grande travaglio delle forze progressiste nasce dalla dialettica fra la nostalgia delle radici, che tende all’arroccamento sulle posizioni tradizionali, e la volontà innovativa che punta ad allargare il consenso oltre i vecchi steccati. Tendenza incoraggiata dal fatto che le politiche neo-liberiste hanno compromesso l’antica fedeltà elettorale di un mondo operaio profondamente mutato, per esempio, o di categorie storicamente amiche come quella dei docenti. Il dilemma è visibile in Italia ma non soltanto qui. Le forze progressiste sono alla ricerca della via per riconquistare il consenso perduto, e sembra prevalere la tendenza a farlo tornando sulle tradizionali posizioni a sinistra. Il tedesco Martin Schulz sfida Angela Merkel contestando, non senza un pizzico di demagogia, la riforma del welfare voluta da Gerhard Schröder, l’ultimo cancelliere socialdemocratico. In modo più fortemente polemico il britannico Jeremy Corbyn prende le distanze dal neo-liberismo di Tony Blair, mentre l’americano Bernie Sanders tenta di dare al termine «socialista» diritto di cittadinanza negli Stati Uniti.
Si tratta di processi così sostanziali da richiamare la svolta di Bad Godes-berg della socialdemocrazia tedesca: allora fu recisa la radice marxista e il partito della classe operaia si aprì all’intera società, stavolta si riscopre non certo quell’antica vocazione ma il connotato umanitario, solidaristico, tendenzialmente statalista del socialismo che ne fu l’erede. In apparente controtendenza la Francia, dove stando ai sondaggi Marine Le Pen è insidiata non dal socialista Benoît Hamon ma dall’outsider social-liberale Emmanuel Macron. La posizione di Macron richiama quella occupata in Italia da Renzi, non a caso accusato dai transfughi del Pd di essere, proprio lui, il regista occulto della scissione, ideata per avere via libera verso destra.
Quando le sinistre muovono in tutt’altra direzione, alla ricerca della purezza originaria, mettono in conto il rischio di favorire i fisiologici rivali conservatori e gli irrequieti portatori delle istanze populiste, che accusano in blocco il sistema dei partiti proponendo di spazzarli via. Dopo il successo di Donald Trump negli Stati Uniti sarà interessante vedere come gli elettori europei sapranno orientarsi fra queste nuove coordinate. In Francia, ovviamente, ma anche in Olanda, dove è imminente un voto pro o contro il demagogo Geert Wilders. E in Germania, dove davanti al quarto mandato della cancelliera Merkel si staglia l’inaspettata popolarità di Schulz.