Le radici dell’odio nel passato coloniale

Il conflitto israelo-palestinese sembra non avere fine. Dalla «Dichiarazione Balfour» alle scintille delle ultime settimane
/ 24.05.2021
di Alfredo Venturi

«Il Governo di sua Maestà considera favorevolmente la costituzione in Palestina di una dimora nazionale per il popolo ebraico...». Così il ministro degli esteri britannico Arthur Balfour in una lettera a Lord Walter Rothschild, figura eminente fra gli ebrei d’Inghilterra. Passata alla storia come «Dichiarazione Balfour», la lettera porta la data del 2 dicembre 1917. In Europa e altrove infuria la prima guerra mondiale. Quel testo contraddice le promesse che hanno assicurato all’Intesa l’appoggio arabo nella lotta contro i turchi alleati degli Imperi centrali. Impersonate dal mitico Lawrence d’Arabia, comprendono un impegno politico: la fondazione sulle ceneri dell’Impero ottomano di un grande Stato arabo.

Questo impegno è già stato contraddetto un anno prima dall’accordo segreto negoziato dai diplomatici Mark Sykes e François Picot in rappresentanza di Londra e Parigi. Con questo patto i due Governi organizzano i territori ottomani spartendosi zone d’influenza con puro spirito colonialista. Quando poi, all’indomani del conflitto, il «Trattato di Sèvres» deciderà il destino della Turchia, con la foglia di fico dei mandati per conto della Società delle Nazioni, i francesi prenderanno Siria e Libano mentre Palestina e Mesopotamia, il futuro Iraq, andranno ai britannici. Riproposta all’attenzione internazionale dai razzi e dalle rappresaglie aeree che mietono vittime a Gaza e Tel Aviv, la vicenda israelo-palestinese si specchia in un passato che ha visto troppo spesso gli interessi prevalere sui valori.

Il territorio del mandato britannico era diverso dalla Palestina ottomana. Fin dagli anni Ottanta dell’Ottocento è stato meta di ebrei in fuga dai pogrom dell’Europa orientale. Verso la fine del secolo Theodor Herzl fonda il movimento sionista e propone il miraggio di uno Stato ebraico. E dove se non nella terra degli avi, al riparo di ciò che resta del Tempio di Salomone? Gli inglesi incoraggiano gli insediamenti per rafforzarsi nell’area mediorientale, difendendosi dai risentimenti arabi per le promesse mancate. Il flusso diventerà impetuoso negli anni Trenta a causa delle persecuzioni naziste. Se all’inizio della prima guerra mondiale gli ebrei in Palestina erano il 9 per cento della popolazione, allo scoppio della seconda raggiungono il 33 per cento. Una quota destinata ad aumentare dopo l’Olocausto, fino a superare largamente la maggioranza.

All’inizio della prima guerra mondiale gli ebrei in Palestina erano solo il 9 per cento della popolazione
I nuovi arrivati acquistano terreni dai proprietari arabi e si sostituiscono a chi li coltivava. La tensione fra i due gruppi, già piuttosto viva fin da quando, nel 1891, i capi della comunità araba supplicarono il Governo di Istanbul perché frenasse l’immigrazione degli ebrei, degenera rapidamente. Nel 1921 gli scontri di Jaffa lasciano sul terreno alcune centinaia di vittime. Si formano organizzazioni clandestine armate e sanguinose turbolenze si trascinano negli anni Trenta e Quaranta, mentre gli inglesi applicano una dura politica repressiva. La comunità internazionale si mobilita in cerca di una soluzione.

Si arriva così al 1948. Il 17 maggio, dopo che il Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite ha dato via libera alla formula bi-nazionale, il leader sionista David Ben Gurion proclama la nascita dello Stato d’Israele di cui diviene primo ministro. La Lega araba respinge la spartizione proposta dall’Onu e attacca la neonata creatura politica. Ma contro le forze egiziane, irachene, saudite, libanesi, siriane e yemenite, Israele ha la meglio, allargando i confini oltre le linee tracciate dalle Nazioni unite. S’instaura un equilibrio precario fra comunità dalle contrapposte identità etniche, politiche e religiose: arabi contro ebrei, palestinesi contro israeliani, musulmani contro israeliti.

Ormai la cruciale questione domina le cronache di questo mondo inquieto. Alla prima guerra ne succedono altre: nel 1956 Israele scende in campo al fianco di inglesi e francesi impegnati a difendere il Canale di Suez che l’Egitto di Nasser ha nazionalizzato. Le truppe ebraiche occupano il Sinai e raggiungono il Canale, ma devono ritirarsi per le pressioni del presidente americano Dwight Eisenhower che si impone ai franco-britannici e spegne quel pericoloso focolaio. Undici anni più tardi è la guerra dei sei giorni: il generale Moshe Dayan guida Tsahal, l’esercito d’Israele, alla conquista della Cisgiordania e di Gerusalemme che strappa alla Giordania, del Sinai e di Gaza che erano territori egiziani. Le Nazioni unite chiedono che le terre siano restituite. Dicono no gli israeliani vittoriosi ma anche gli arabi sconfitti, perché accettando la risoluzione riconoscerebbero implicitamente lo Stato ebraico.

Il confronto militare penalizza gli arabi e allora L’Organizzazione per la liberazione della Palestina, guidata da Yasser Arafat, imbocca la via del terrorismo. Centinaia di migliaia di palestinesi in fuga dai territori occupati cercano asilo negli Stati arabi vicini, creando problemi di stabilità. Nel «settembre nero» del 1970 vengono sterminati a migliaia nei campi profughi della Giordania. Molti superstiti raggiungono i connazionali in Libano e anche qui alterano delicati equilibri di potere. Poi arriva il 1973, la quarta guerra: nel giorno del Kippur, una festa rituale ebraica, Egitto Siria e Giordania attaccano a sorpresa. Dopo lo smarrimento iniziale la reazione israeliana è una volta ancora vittoriosa.

Di fronte all’insensatezza della situazione e all’inconcludenza della guerra si fa strada a fatica, in un terreno avvelenato dall’odio, un inedito desiderio di pace. Un illuminato rais egiziano, Anwar el Sadat, viene accolto in Israele. Con la mediazione del presidente americano Jimmy Carter si arriva alla pace, Israele restituisce il Sinai all’Egitto. Ecco Sadat nel 1978 a Camp David, accanto a un raggiante Carter, stringere la mano al primo ministro d’Israele Menachem Begin. Sadat pagherà a caro prezzo quella stretta di mano, tre anni più tardi sarà ucciso al Cairo dai fondamentalisti islamici, che durante una parata militare faranno strage nella tribuna d’onore.

Nei primi anni Novanta si ritenta la via della pace con gli accordi di Oslo. Stavolta il mediatore è il presidente Bill Clinton, le parti sono rappresentate da Arafat e dal primo ministro Yitzhak Rabin. Ma poi si ritorna alla strategia dello scontro, Rabin morirà sotto i colpi di un ebreo estremista. In Israele prevale la linea oltranzista, fra i palestinesi la frustrazione sfocia nella violenza. Un nuovo attore irrompe sulla scena, l’Iran: sostiene e arma Hezbollah e Hamas che vogliono la fine d’Israele. Sulla pelle dei palestinesi si gioca una partita che ha per posta la supremazia sulla umma islamica: da una parte Teheran dall’altra l’Arabia saudita. Sciiti contro sunniti. E così la questione mediorientale rimane irrisolta, si direbbe che non possa finire mai. Gaza spara su Israele i razzi iraniani, Israele risponde eliminando con le bombe i capi di Hamas. Ma quella che dovrebbe essere un’operazione chirurgica ha tragici effetti collaterali: muoiono civili, muoiono bambini. I rancori dilagano, la pace si allontana, il mondo preme per un cessate il fuoco, l’ennesimo. E poi?