Le nubi su Boris Johnson non si diradano

Prospettive dopo il voto di fiducia e possibili successori del premier
/ 13.06.2022
di Barbara Gallino

«Niente e nessuno può impedirmi di continuare a fare il primo ministro». Boris Johnson ha mostrato i muscoli nel corso del primo «Question time» alla Camera dei Comuni, dopo essere sopravvissuto a un voto di sfiducia istigato da membri del suo stesso partito. Sostiene di essere uscito più forte dalla sfida rivoltagli dalla crescente fronda nella maggioranza, ma la verità è un’altra. Il cerchio si stringe intorno al premier britannico: fra i 359 deputati conservatori che hanno preso parte al voto a Westminster, 211 si sono espressi a suo favore, ma ben 148 contro. Un consenso di appena il 59% che non promette nulla di buono. Basti pensare alla ex premier Theresa May che, dopo avere riscosso un più elevato 63% dei suffragi in una votazione analoga nel 2018, si era trovata costretta a dare le dimissioni solo sei mesi dopo.

Tra i «traditori» di Johnson ci sarebbero non solo «peones» e componenti di spicco del partito apertamente ostili, come Jeremy Hunt, ex ministro degli Esteri e della Salute, rispettivamente nei governi May e Cameron, che è ora assurto a paladino dei ribelli. Ma anche sottosegretari ed esponenti dello stesso governo di Johnson, che avrebbero approfittato del segreto dell’urna per pugnalare alle spalle il leader, la cui popolarità fra gli elettori è ormai a picco sulla scia del «Partygate».

Che scenario si prospetta adesso per lui? A detta dei detrattori il suo premierato «imploderà» senza bisogno di trame o complotti. Il prossimo banco di prova saranno le elezioni suppletive del 23 giugno. In gioco ci sono i seggi di Wakefield nel West Yorkshire e di Tiverton e Honiton, nel Devon, lasciati vacanti da due deputati Tories costretti a dimettersi: uno in seguito a una condanna per violenza sessuale e l’altro per essere stato sorpreso a guardare siti porno alla Camera dei Comuni. Secondo le ultime rilevazioni, il seggio di Wakefield dovrebbe tornare in mano ai Laburisti, ai quali era stato strappato nel 2019, mentre i Lib-Dem sono dati per favoriti a Tiverton e Honiton. Se i pronostici si rivelassero corretti, aumenterebbe notevolmente la pressione su Johnson. È convenzione che il voto di fiducia non si possa ripetere prima di 12 mesi dall’ultimo. Tuttavia una sconfitta alle suppletive potrebbe di fatto indurre il Comitato 1922 – organismo del partito deputato a supervisionare l’elezione del leader Tory e a raccogliere formali manifestazioni di dissenso nei suoi confronti – a rivedere le regole in modo da consentirlo. Si tratta di un’eventualità improbabile ma non impossibile.

Quando? Prima del Congresso annuale del partito il prossimo ottobre, perché altrimenti Johnson si troverebbe in pieno lancio della campagna elettorale per le elezioni del 2024. Tuttavia un cambio delle regole non è visto di buon occhio da alcuni membri del partito. Non solo tra i fedelissimi, ma anche fra gli oppositori. Per il vice-primo ministro Dominic Raab «giocherellare con le regole quando non si condivide un risultato» è discutibile, mentre per l’ex ministro della Brexit, David Davies – che sull’onda delle violazioni delle restrizioni Covid da parte del premier aveva chiesto qualche mese fa le sue dimissioni – un’anticipata votazione di fiducia rischierebbe di destabilizzare qualsiasi futuro nuovo leader Tory.

Johnson ha indicato che con il supporto incassato pur sempre da 221 compagni di partito (la soglia minima per restare in sella al governo era di 180), è giunto il momento di porre fine al dibattito sul «Partygate» e concentrarsi sulle esigenze del paese: miglioramento delle infrastrutture e del servizio sanitario nazionale, riduzione delle disuguaglianze sociali, attivazione di misure contro l’incalzante caro vita. Il premier ha fatto sapere di voler tagliare le tasse per riconquistare il consenso degli elettori che – dopo il trionfale risultato alle elezioni del 2019 – sono andati perduti dopo la pandemia (la quale ha portato alla più alta pressione fiscale dagli anni Quaranta) e lo scandalo dei festini in Downing Street quando il resto del regno era in lockdown. Ma una riduzione delle tasse è impensabile nel breve periodo. Nel frattempo l’aumento dei tassi d’interesse e della pressione fiscale, nonché l’inflazione schizzata al 9% dopo il conflitto russo-ucraino (e, benché Boris non lo ammetta, pure per effetto dell’uscita del Regno Unito dalla Ue) hanno complicato il quadro economico del paese.

Secondo gli ultimi dati Ocse, l’economia britannica quest’anno avrà un’espansione più lenta delle previsioni e nel 2023 andrà in stagnazione con la conseguenza di passare da seconda del G7 per crescita con un +3,6% del Pil, a penultima nel gruppo dei paesi industriali composto da Stati Uniti, Canada, Germania, Giappone, Francia, Italia e giustappunto Gran Bretagna. Oltre alla difficile congiuntura economica, pende su Johnson un’ulteriore inchiesta legata al «Partygate», condotta da una commissione parlamentare bipartisan per accertare se ha ingannato il Parlamento con le sue ripetute affermazioni di non essere a conoscenza di illeciti raduni a Downing Street durante il lockdown. L’esito non sarà noto prima dell’autunno, ma se la mendace condotta fosse confermata, il primo ministro sarebbe probabilmente costretto a lasciare. Mentre Johnson si batte per conservare la leadership, è già cominciato il toto nomi per i candidati alla successione.

Oltre all’ovvio contendente Jeremy Hunt, acquista forza la possibile discesa in campo dell’attuale ministro della Difesa, Ben Wallace. Ex militare, Wallace ha raccolto molti consensi per la sua gestione della crisi ucraina, divenendo uno degli esponenti del governo più graditi fra i tesserati del partito Conservatore. Pur difendendo l’operato del premier e avendo sempre dichiarato di non aspirare al «top job», il ministro della Difesa alla domanda se considererebbe di candidarsi in presenza di un supporto adeguato, di recente ha risposto: «Sono un politico e alla fine la mia priorità è quella di provare a risolvere i problemi e rendere questo paese migliore per chi ci vive».