Nell’America latina stanca di guerra, di guerre in corso non dichiarate ma che fanno moltissimi morti ce ne sono parecchie. In Colombia, in Messico, in Venezuela, in Salvador. Se poi si accettasse di considerare come guerra guerreggiata la violenza feroce che l’esercito transnazionale dei cartelli narcos impone ai civili in quasi l’intero continente tranne poche isole felici di pace, l’America latina si potrebbe definire un continente in pieno conflitto armato contro i suoi abitanti civili.
Inquadriamo solo qualche quadro di guerra, impossibile descriverli tutti anche solo sommariamente. Cominciamo dalla Colombia dove è stato firmato un difficilissimo accordo di pace nel 2016 dopo decenni di naufragate trattative tra Bogotà e le Forze armate rivoluzionarie della Colombia, un esercito informale di guerriglieri che teneva insieme vecchi slogan sovietici e il business della coltivazione delle piante di coca. L’accordo è in gran parte fallito. Frange dissidenti si sono rifiutate di deporre le armi e continuano a combattere in zone isolate ma vaste della Colombia dove la presenza dello Stato è inesistente. Combattono per assicurarsi porzioni di piantagioni di coca e controllo del territorio. Combattono contro l’esercito, contro le varie polizie e contro altri gruppi guerriglieri che la pace con il governo non l’hanno firmata, uno di loro è l’Esercito di liberazione nazionale. Soltanto al confine tra le regioni di Antoquia e Chocò, un gruppo di miliziani chiamato «autodefensas guainistas» e brandelli dell’Esercito di liberazione nazionale si scontrano brutalmente da cinque anni e hanno disseminato la selva di mine che uccidono puntualmente civili ignari. Le prime vittime della guerra mai chiusa tra vari gruppi guerriglieri (che poi sono narcoguerriglieri), eserciti narcos ed esercito statale sono i leader civili di organizzazioni sociali, sindacalisti, difensori di diritti civili. Da quando è stato firmato l’accordo di pace ad oggi sono ufficialmente oltre 1300 gli attivisti morti per voler difendere il loro territorio dalla guerra che, sulla carta, è finita nel 2016.
Nel Salvador, dove il governo del presidente Nayib Bukele ha adottato politiche che hanno limitato l’indipendenza del potere giudiziario, e dove ogni giorno organizzazioni della società civile, attivisti e giornalisti indipendenti vengono uccisi, il governo si vanta di aver ridotto il numero di omicidi. La rivista «El Faro» spiega da dove nasce la riduzione del numero di morti. Ci sarebbe stato un patto segreto tra il governo di Bukele e i leader della pandilla, gang, Mara Salvatrucha (MS-13) e delle due fazioni di Barrio-18 (18-Sureños e 18 Revolucionarios) per dare vantaggi personali ai capi delle bande in cambio di una tregua. In una popolazione di sei milioni e mezzo di abitanti ci sono, secondo le stime ufficiali, sessantamila pandilleros attivi nel 94% dei municipi del Paese, mentre altri diciottomila sono in carcere.
Una situazione di violenza endemica equivalente a causa delle bande metropolitane che anche lì si chiamano pandillas e fanno morti quotidianamente, esiste in Honduras. In Venezuela, sparita dalle cronache europee non perché la drammatica crisi sociale e politica si sia risolta, le regioni di confine con la Colombia e lo stato Zulia in particolare vivono una guerra terribile di bassa intensità tra narcos locali, narcos colombiani, trafficanti di ogni genere e paramilitari sbandati che non hanno più capi politici ai quali rispondere e vagano come mercenari in cerca di un arruolamento nel mercato più prospero che al momento è quello del contrabbando. Un far west che provoca morti civili ogni giorno. La violenza endemica arriva al parossismo in Messico che può ormai davvero definirsi un narcostato. E quando un narcostato non detiene il monopolio della forza sul territorio e sulla popolazione civile necessariamente confligge e ciò provoca morti civili e terrore. Oramai le scorribande narcos che gli abitanti della capitale guardavano con distaccato orrore perché comunque si svolgevano nelle terre del nord, vicino al confine con gli Sati Uniti, dove ci sono preziosi corridoi di traffico di stupefacenti, oppure nel sud, in Chiapas, vicino al Guatemala, si spingono fin sull’orlo di Città del Messico. Con mitragliatrici scatenate, cadaveri in strada, mattanze.
L’America latina rimane la regione con il tasso di omicidi più alto al mondo, le città che nel 2021 hanno registrato il record di omicidi sono messicane. Nella lista delle dieci città più pericolose del pianeta stilata da worldatlas.com sette sono messicane. Celaya, con una popolazione di 639mila abitanti e un tasso di 109,38 omicidi per ogni centomila abitanti, sta al primo posto. Lì il Cartél de Jalisco Nueva Generación è in guerra con il Cartél de Santa Rosa de Lima.
Tijuana, la città che condivide una frontiera di ventiquattro chilometri con San Diego, è al secondo posto. Lì operano i due cartelli rivali di Tijuana e Sinaloa. Vengono poi Ciudad Juárez, Ciudad Obregón, nello stato di Sonora, Itapuato, nello stato di Guanajuato, altro teatro della lotta tra il Cártel de Santa Rosa de Lima e il Cártel de Jalisco Nueva Generación.