Nel momento in cui Vladimir Putin – che si trova in isolamento, dopo che tra il suo personale si sono registrati, secondo la sua stessa ammissione, «decine di casi di Covid» – si è seduto al computer per inoltrare online il suo voto per le elezioni della Duma, l’opinione pubblica ha iniziato a farsi numerose domande. Dove si trova il presidente russo? Come è riuscito a votare senza possedere uno smartphone sul quale inoltrare la verifica? Il Cremlino ha spiegato che ha utilizzato il telefono di un consigliere ma pare che la tecnologia non lo permetta. E, terza domanda, perché il suo orologio da diecimila euro mostra una data di dieci giorni prima? La risposta ufficiale è stata che Putin semplicemente non bada alla funzione che gli indica che giorno è (anche perché ha un nutrito staff pronto a ricordarglielo). Ma l’episodio, mostrato dalla tv russa, è diventato simbolico della maratona di tre giorni (dal 17 al 19 settembre scorsi) che ha riconfermato la maggioranza costituzionale del partito presidenziale Russia unita nella Camera bassa del Parlamento.
In primo luogo perché si è trattato delle elezioni più truccate della storia russa, tanto che molti deputati del Parlamento europeo hanno proposto di non riconoscere il risultato delle urne, come già succede da vent’anni al dittatore bielorusso Aleksandr Lukashenko. L’Ong Golos ha registrato quasi 5 mila violazioni elettorali, ma la Commissione elettorale centrale ne ha rilevate solamente 12, nonostante i social russi si fossero riempiti di filmati e fotografie di pacchi di schede infilati nelle urne, verbali riscritti nei seggi e osservatori indipendenti cacciati brutalmente dallo scrutinio oppure arrestati dalla polizia. Ma le manipolazioni più sfacciate sono state proprio quelle del voto elettronico: a Mosca, dove tradizionalmente l’opposizione è più forte, hanno vinto ovunque i candidati di Russia unita, nonostante i dissidenti fossero in cospicuo vantaggio fino al 99% delle schede cartacee scrutinate in almeno 8 delle 15 circoscrizioni. Gli esperti indipendenti stimano i brogli intorno ai 14-16 milioni di schede, quasi un terzo dei partecipanti al voto, e il peso reale dei putiniani intorno al 30%, invece del 50% dichiarato nel voto proporzionale (al quale vanno ad aggiungersi 198 circoscrizioni uninominali su 225).
Che il Cremlino avrebbe messo da parte qualunque remora di procedura democratica pur di conservare le posizioni di comando nella Duma era diventato chiaro già quando praticamente tutti i candidati critici del Governo sono stati arrestati, incriminati o costretti all’esilio. E a tutti i politici legati all’oppositore Alexey Navalny è stato impedito di partecipare alle elezioni in quanto «estremisti». I beneficiari principali del voto sono stati infatti i comunisti, che secondo le stime indipendenti hanno vinto perfino in roccaforti liberali come Mosca e San Pietroburgo e nel voto all’estero. Merito in buona parte del «voto intelligente» proposto dal carcere da Navalny: la controversa tattica di turarsi il naso e convogliare il voto di protesta sul candidato uninominale che aveva maggiori chances ha creato per la prima volta un inedito fronte unito di opposti ideologici. Un risultato che il Governo ha cercato di impedire in tutti i modi, arrivando a minacciare i dipendenti di Google in Russia di arresto per costringere il gigante del web (e la Apple) a togliere l’app con le indicazioni di voto dei navalniani dai suoi store, e oscurare i filmati Youtube e i Google docs con le liste del «voto intelligente».
Il messaggio rivolto all’Occidente, ma soprattutto all’interno della Russia, è dunque chiaro: indipendentemente dalla crisi di consensi, dalla crescita di scontento e dalla fine della maggioranza putiniana, il regime non ha intenzione di aprire spazi alle alternative. Gli elettori critici sono stati scoraggiati dall’andare ai seggi: l’affluenza ufficiale è intorno alla metà degli aventi diritto, quella reale probabilmente ancora più bassa, con una evidente scommessa sul voto di dipendenti pubblici, militari e altre categorie su cui le autorità possono esercitare pressioni. Il voto elettronico è poi stato utilizzato per far vincere candidati perdenti, e canali Telegram dedicati alle indiscrezioni moscovite affermano che le percentuali di molti concorrenti sono state negoziate direttamente al Cremlino, tra vari esponenti dei clan regionali e politici.
Il voto per la Duma è stato infatti soprattutto un monito ai vari gruppi dell’establishment: bisogna guardare la data sull’orologio di Putin, non quella reale, perché sarà il Cremlino a decidere che giorno è. Le elezioni per tanti versi sono state la prova generale di quelle del 2024, quando Putin dovrebbe decidere se correre per il suo quinto mandato oppure avviare una transizione verso un delfino ancora da individuare. Il Cremlino ha fatto una fatica immensa, concentrando tutte le sue risorse, per conservare il suo monopolio politico. Si tratta di capire se ne trarrà la conclusione di non poterselo più permettere o, al contrario, di non potersi permettere di perderlo. Navalny dal carcere ha giustamente applaudito al suo «voto intelligente» che ha messo in difficoltà il sistema, ma la sua ricetta originaria – elezioni almeno parzialmente libere sostenute dalla pressione della piazza contro le falsificazioni – è diventata impraticabile dopo che il Cremlino ha reagito all’ondata di scontento con un’impennata repressiva. A questo punto il gioco si svolgerà lontano dalle urne e terrà conto di diverse incognite, tra cui la capacità di Putin, sempre più isolato e assente (spesso non si sa nemmeno dove si trovi e a volte il suo orologio mostra una data sbagliata perché in realtà i video trasmessi dalla tv di Stato sono stati girati in altri momenti), di mantenere salda la sua leadership durante una crisi economica aggravata dai problemi della Russia sul piano internazionale.
Il sistema si trova davanti a un dilemma. Necessita di un aggiornamento sempre più urgente e nello stesso tempo lo vede troppo rischioso. Lo stesso Putin ha giustificato «l’azzeramento della Costituzione» nel 2020, che gli permetterebbe di ricandidarsi per altre due volte, con il desiderio di bloccare le élite che «si stanno già guardando intorno» in cerca del suo successore. Quella che dovrebbe essere una procedura democratica normale in Russia è ormai un reato di lesa maestà, ma un regime, dopo 22 anni ormai personalizzato, non ha grandi risorse da offrire a una popolazione stanca, impoverita e a una classe dirigente che sogna un ricambio generazionale. Che non riguarda solo la presidenza. Due degli altri 4 partiti entrati nella Duma, i comunisti e i «liberaldemocratici», sono guidati rispettivamente dal 77enne Gennady Zyuganov e dal 75enne Vladimir Zhirinovsky, entrambi al timone da 30 anni ed entrambi attenti a non contestare Putin. L’alleanza del «voto intelligente» dei liberali con i giovani più combattivi del Pc rischia di aprire una crisi anche nel partito più vecchio e radicato della Russia, che ora si rende conto che in elezioni oneste potrebbe anche vincere e andare al governo.