Sono da poco passate le sei del mattino a Baan Duea, un piccolo villaggio di pescatori nella provincia di Nong Khai, nel Nord-Est della Thailandia, lungo le rive del Mekong. Dall’altopiano del Tibet, il fiume scorre per oltre 4 mila chilometri attraversando la Cina, il Myanmar, la Thailandia, il Laos, la Cambogia e il Vietnam, per poi riversarsi nel Mar cinese meridionale. Un fiume ricco di leggende affascinanti. Uno dei più grandi dell’Asia e il settimo più lungo al mondo. Corrado Ruggeri, nel libro Bambini d’Oriente, lo descrive come «dolce e feroce, affidato alle magie della natura». Quella stessa natura che oggi è messa in pericolo dalle numerose dighe costruite da Pechino.
«Nulla è più come prima, non c’è più niente di naturale qui», dice Sukanayaa Intalak, 53 anni, nata e cresciuta a Baan Duea. «Speriamo che il livello dell’acqua rimanga accettabile oggi. Quando è troppo alto o troppo basso i nostri pesci muoiono e noi non abbiamo nulla da mangiare e nulla da vendere». Non solo le 11 dighe mainstream e le altre 300 più piccole già realizzate dalla Cina, o in fase di realizzazione, producono improvvise fluttuazioni del livello dell’acqua, che a loro volta interferiscono con la migrazione dei pesci e con la deposizione delle uova, ma anche la quantità dei nutrienti presenti nel fiume è diminuita drasticamente, mettendo in serio pericolo il già fragile sistema fluviale.
Il fiume dava vita a una delle zone più produttive dell’area. Il Mekong fino ai primi anni del 2000, infatti, vantava la più grande pesca interna del mondo, che rappresentava circa il 25% del pescato globale in acqua dolce. Le oltre 500 specie di pesci conosciute riuscivano a sostenere una popolazione di 60 milioni di abitanti e gli agricoltori delle terre vicine, utilizzando l’acqua per irrigare, riuscivano a produrre abbastanza riso per sfamare quasi 300 milioni di persone ogni anno. Oggi non è più così. «Siamo tutti pescatori da generazioni qui al villaggio», racconta Sukanayaa mentre mostra le gabbie dove alleva un piccolo quantitativo di pesci. «Ma la vita è cambiata. Hanno stravolto le nostre abitudini. Ormai non usciamo quasi mai con la barca, non avrebbe senso, non c’è più niente da prendere, se non le carcasse. Per questo abbiamo iniziato ad allevare i pesci».
Come se le strutture già presenti non bastassero, Pechino, lanciando un programma di assistenza economica al Laos, alla Cambogia e alla Thailandia per la produzione di energia elettrica, ha finanziato di recente la costruzione di altre decine di argini artificiali nei loro territori. Ma le dighe idroelettriche, sebbene siano un’alternativa più pulita al carbone, stanno causando un vero e proprio disastro ambientale. I Governi dei Paesi interessati però, puntando soprattutto alla crescita economica nonostante gli impatti negativi, sono determinati a proseguire i lavori di costruzione. «L’interesse dei politici regionali è totalmente assorbito dallo sviluppo delle infrastrutture», ha affermato Pou Sothirak, direttore del Cambodian center for cooperation and peace ed ex ministro dell’Energia cambogiano, in una discussione sul fiume Mekong che si è tenuta all’Università Chulalongkorn di Bangkok. «Vogliono solo più energia e credono che la costruzione di dighe migliorerà la loro economia nazionale, ma non è così».
«Le costruzioni rappresentano una grave minaccia per gli ecosistemi della regione», scrive Brahma Chellaney, docente di studi strategici presso il Center for policy research di Nuova Delhi. «A lungo termine nessuno guadagnerà dalla distruzione degli ecosistemi. L’unico modo per evitare un futuro così cupo per la regione e i suoi abitanti è porre fine alla costruzione di dighe nel bacino del Mekong, puntando sulla protezione dei diritti di ciascun Paese e sul rispetto dei suoi obblighi, verso la sua gente, i suoi vicini e l’intero pianeta». Oltre alle gravi conseguenze ambientali, si segnala anche un forte pericolo dal punto di vista strategico. La Cina, infatti, avendo ormai il potere di fermare il flusso del Mekong, ha anche la forza di devastare intere zone agricole negli Stati a valle delle dighe. Oppure, senza arrivare a tanto, il Dragone potrebbe sfruttare questa minaccia per avere maggior influenza nell’area, a cominciare dai piani per l’espansione delle Nuove vie della Seta. Le infrastrutture in costruzione, infatti, hanno anche l’obiettivo di consentire a navi di tonnellaggio più elevato di percorrere il fiume fino a Luang Prabang, l’antica capitale del Laos. Questo aprirebbe una nuova, grande via commerciale per il trasporto di merci.
Già nel 2017 Eugene Chow, un esperto indipendente di relazioni e sicurezza internazionale, ha descritto le dighe sul Mekong come «armi nascoste in bella vista che consentono alla Cina di tenere in ostaggio un quarto della popolazione mondiale senza sparare un solo colpo». Intanto la popolazione locale non ha più un futuro certo. «Qualche mese fa l’acqua è scesa così tanto che a malapena riuscivamo a vederla. Non avevamo niente da mangiare», si sfoga Nuoljan Chaikun, la moglie di un pescatore di un villaggio vicino. «Non sappiamo più come fare. Siamo costretti a vivere giorno per giorno. Qui non c’è più futuro».
Le dighe cinesi e il fiume che muore
Mekong - La gente di Baan Duea in Thailandia è disperata per le continue fluttuazioni del livello dell’acqua. Gli esperti parlano di una grave minaccia per gli ecosistemi della regione e delle mire strategiche di Pechino
/ 22.03.2021
di Fabio Polese
di Fabio Polese