Le democrazie sono fallite?

Controversia – In un suo recente saggio, il docente canadese in Cina Daniel S.Bell teorizza la validità del modello cinese e i limiti del sistema occidentale. Una tesi che va nella direzione tracciata anche da Putin
/ 26.08.2019
di Federico Rampini

Quando ero corrispondente a Pechino, dal 2004 al 2009, ricordo di essere rimasto impressionato dalla composizione dei governi cinesi. Vi abbondavano i plurilaureati, soprattutto gli ingegneri. C’erano dei top manager, incluso un ex dirigente del gruppo tedesco Audi. Molti avevano compiuto studi all’estero. La percentuale di Ph.D. (dottorati di ricerca) era superiore a qualsiasi governo occidentale. Il livello di competenza non era casuale, era il frutto di una selezione voluta e sistematica.

Il regime continuava a definirsi comunista ma del comunismo aveva abbandonato molti principi, con l’eccezione del potere assoluto del partito. Il suo sistema di valori stava evolvendo in modo evidente, con il recupero della tradizione confuciana. Ma Kongzi o il Maestro Kong (Confucius è il nome latinizzato), vissuto dal 551 al 479 prima di Cristo, ha lasciato un insegnamento complesso che è stato reinterpretato più volte. La versione che piace ai leader cinesi è l’ultima interpretazione paternalistico-autoritaria che ne fece Lee Kuan Yew, il fondatore della moderna città-Stato di Singapore. Tra gli

aspetti dell’eredità confuciana su cui il modello Singapore è fondato, c’è la meritocrazia: partendo dall’antica tradizione degli esami con cui si accedeva alle alte sfere del mandarinato, la burocrazia dell’Impero Celeste, Lee Kuan Yew volle affidare Singapore ad una classe dirigente selezionata dalla competenza, non dal suffragio universale. I risultati sono stati spettacolari, Singapore era un buco nero di miseria del Terzo mondo alla fine degli anni Cinquanta, oggi è una tecnopoli opulenta, una delle città più moderne, efficienti e ricche del pianeta. La Cina non si può paragonare a quel micro-modello, avendo 1,4 miliardi di abitanti. Però anche la sua classe dirigente, adattando alcune ricette di Singapore, ha avuto risultati fenomenali: in un quarto di secolo ha sollevato dalla miseria più di mezzo miliardo di persone, un miglioramento di benessere che non ha precedenti nella storia dell’umanità. Lo ha fatto con un regime politico che ancora stentiamo a definire.

Termini come «comunista», ma anche «dittatoriale», sono inadeguati: vanno bene per la Corea del Nord, non per un regime cinese che consente ai propri cittadini di viaggiare liberamente all’estero, di studiare nelle università americane, di scegliersi il lavoro che vogliono, di arricchirsi. Autoritario lo è di certo, il sistema politico cinese, visto che i suoi dirigenti non vengono eletti dal popolo; e maneggiano con determinazione gli strumenti della censura di Stato o della repressione poliziesca. C’è però un limite all’autoritarismo, poiché è evidente che il regime vuole assicurarsi un consenso di massa. Questo consenso viene dalla «performance», dai risultati dell’azione di governo.

I politici cinesi sono giudicati dai benefici che offrono alla popolazione: lavoro, reddito, sicurezza, istruzione, salute. In quanto all’autoritarismo, anch’esso viene giustificato in modo esplicito attingendo alla visione confuciana: il sovrano è come un buon padre di famiglia, deve curarsi del benessere di tutti i membri della sua comunità; questi ultimi però hanno doveri di obbedienza, e devono anteporre l’interesse collettivo ai diritti individuali. Confuciano-paternalista-meritocratico, forse è la definizione che descrive meglio quel regime. E ci costringe a rimettere in discussione alcune delle nostre certezze. L’Occidente vive una profonda crisi d’identità, una caduta di autostima. Le liberaldemocrazie hanno perso la fiducia di ampi strati della popolazione; forse solo negli anni Venti e Trenta del secolo scorso ci furono correnti anti-democratiche così forti in mezzo a noi.

Un momento-chiave di questa perdita di fiducia è stata la grande crisi del 2008-2009, catalizzatore estremo di processi già in atto da decenni: l’aumento spaventoso delle diseguaglianze, l’impoverimento delle classi lavoratrici, la finanziarizzazione dell’economia, l’arroganza delle oligarchie del denaro. Tutto questo avveniva mentre al timone delle liberaldemocrazie c’erano classi dirigenti «tradizionali»: regolarmente elette dai cittadini; talvolta anche selezionate in base a competenze tecnocratiche. Non si può dimenticare il ruolo avuto dagli «esperti», economisti e banchieri centrali in testa, incapaci di avvistare e prevenire la crisi del 2008 o peggio ancora corresponsabili nel crearne le cause. Oppure di quei tecnocrati che hanno regalato all’Eurozona i parametri inflessibili del Patto di Stabilità, infliggendole un decennio di stagnazione. 

Allo shock del 2008-2009 alcune comunità di cittadini-elettori hanno reagito portando al potere l’opposto dei tecnocrati: abbiamo così le nuove classi dirigenti populiste (Donald Trump, Boris Johnson, Matteo Salvini e il Movimento 5 Stelle) che professano disprezzo verso i tecnocrati. Ma in termini di risultati dell’azione di governo, le cose non sembrano migliorate. E permane la sfiducia sulla capacità della democrazia di selezionare buoni governi.

Una constatazione s’impone. Anche in America e in Europa dove le tradizioni liberaldemocratiche sono più antiche, molti cittadini non vi aderiscono principalmente per profonde convizioni valoriali, ma solo nella misura in cui quei sistemi politici sono in grado di fornire risultati. Il periodo di maggiore consenso verso la democrazia coincise con i «trent’anni gloriosi» dopo la Seconda guerra mondiale: quando il boom della ricostruzione generò lavoro e benessere crescente, consentì il finanziamento del Welfare, in un contesto di solidarietà e redistribuzione che manteneva le diseguaglianze entro limiti accettabili. Siamo convinti democratici, finché la democrazia non ci tradisce.

È in questo contesto che arriva come una «bomba» il libro di uno studioso canadese che teorizza la validità del sistema cinese. È un saggio scomodo, ha suscitato controversie, soprattutto negli Stati Uniti. L’autore è Daniel S. Bell, docente in Cina alla Shandong University. Ora il libro è disponibile in italiano: Il modello Cina. Meritocrazia politica e limiti della democrazia (Luiss University Press). È un saggio che parte dalla conoscenza approfondita della storia cinese e del pensiero confuciano, due caratteristiche rare tra gli occidentali. È un invito all’umiltà, per chiunque sia convinto della superiorità dei nostri sistemi politici.

«La pratica di scegliere i principali leader di un paese attraverso elezioni competitive libere ed eque – scrive Bell – ha una storia relativamente breve (meno di un secolo in quasi tutti i paesi, rispetto a – per fare un esempio – i milletrecento anni del sistema degli esami imperiali in Cina). Come ogni altro sistema politico, ha vantaggi e svantaggi, e sembra troppo presto affermare che sia il migliore sistema di tutti i tempi. In modo più sostanziale, sembra peculiare assumere una posizione quasi dogmatica in favore di un sistema che non richiede ai propri leader esperienza e competenza.

Ci sono molti modi di esercitare il potere – sul posto di lavoro, nelle scuole, negli ospedali, nelle carceri, e così via – e in quegli ambiti l’assunto naturale è che sia necessaria l’esperienza prima che i leader esercitino il potere. Nessuna azienda o università sceglierebbe un leader senza una sostanziale esperienza di leadership di qualche sorta, preferibilmente nello stesso campo. Eppure il potere politico costituisce un’eccezione: è accettabile scegliere un leader che non ha precedente esperienza politica, purché scelto con il meccanismo una testa-un voto».

Bell non disprezza le idee fondanti della democrazia liberale, ammette che l’avere uguale diritto a partecipare alla politica nazionale è stato considerato come «una chiave della dignità umana». Riconosce che «il voto è un rituale comune che produce e rafforza un senso di solidarietà civica, quando votiamo ci sentiamo parte di una comunità». E tuttavia questo valore unificante si è affievolito: negli Stati Uniti, in Europa, in India, le democrazie negli ultimi anni lungi dal creare un senso di solidarietà civica hanno esaltato le divisioni, fino ad arrivare a polarizzazioni estreme, laceranti. Nelle ultime stagioni elettorali la tendenza è dividersi in tribù ideologiche ostili, che si delegittimano a vicenda. 

Inoltre l’aureola filosofica non serve a «vendere» la democrazia elettorale e pluri-partitica ai cinesi, «perché i sondaggi politici rilevano che i cittadini di società dell’Asia orientale comprendono tipicamente la democrazia in termini sostanziali più che procedurali: vale a dire, tendono a stimare la democrazia per le conseguenze positive a cui conduce piuttosto che stimare le procedure democratiche in sé». In questo senso la performance della Cina che si è salvata dalla recessione nel 2008-2009 mentre Europa e America sprofondavano in una crisi grave, sembra un verdetto chiaro: Pechino è governata meglio di Washington, Londra, Berlino e Parigi. Bell prende anche in considerazione altri studiosi occidentali critici verso la democrazia, come l’economista Paul Collier (autore de L’ultimo miliardo) il quale ha dimostrato come la democrazia esportata in paesi poveri e con divisioni etniche tenda ad aumentare la violenza.

Il saggio di Bell è stato visto da alcuni come un attacco all’Occidente, in una fase già difficile: il numero di democrazie nel mondo regredisce (dopo il periodo di espansione tra gli anni Settanta e la caduta del Muro di Berlino); in America e in Europa gli elettori danno crescenti segnali di sfiducia ai propri governi; nei regimi autocratici c’è chi teorizza il nostro declino, come Putin. Bell non vuole convincerci della superiorità del modello cinese, però confuta alcuni nostri stereotipi con queste quattro affermazioni: «1) per una comunità politica è un bene essere governati da leader di elevata qualità; 2) il sistema politico della Cina a un solo partito di governo non sta per crollare; 3) l’aspetto meritocratico del sistema è parzialmente buono; 4) può essere migliorato». 

C’è di che riflettere, anche se le vicende di Hong Kong insinuano il dubbio sulla capacità dei tecnocrati cinesi di prevedere e governare le crisi quando esulano dalla sfera puramente economica.