Non vi è dubbio che − nella gestione quotidiana di soggetti economici quali Stati, intermediari finanziari, aziende ed economie domestiche − le scienze economico-manageriali costituiscano da sempre fonte inestinguibile di principi, a cui attingere regolarmente. Con riferimento specifico alle imprese (cioè al «motore» produttivo delle nazioni) è possibile affermare che, negli ultimi anni, si è «ritagliato» un ruolo cruciale un concetto che negli anni a venire potrebbe acquisire sempre maggiore rilievo: il crisis management, ovverosia la gestione delle crisi dovute ai fenomeni più vari quali l’imprevedibilità di scandali, incidenti o altro ancora. Altrettanto evidente è che un’azione tempestiva di contrasto degli avvenimenti avversi nei confronti dell’esistenza dell’impresa sia «chiave di volta» per il successo (o meno) dell’agire stesso: tale nesso causale si è, però, acuito nelle epoche attuali, che si caratterizzano per elevata interconnessione e rischi di «effetti domino» fra aziende dello stesso gruppo o, persino, settore economico. Più esplicitamente, se già nel passato recente era importante evitare di temporeggiare, oggigiorno lo è ancor più, così da potere ridimensionare possibili effetti spillover, cioè di «sconfinamento» dell’impatto negativo in altri ambiti sociali. Se a ciò si aggiunge quanto di ulteriormente pregiudizievole derivi dalle fake news, cioè da quel fenomeno nuovissimo con cui ignoti costruiscono intenzionalmente notizie false e diffamatorie nei confronti di persone e/o società per influenzarne la percezione dinanzi al pubblico di riferimento (ad esempio, a clienti, investitori, elettori, ecc.), la problematica deve essere affrontata «di petto». La stessa evidenza empirica con i suoi recenti scandali, che hanno coinvolto gruppi aziendali rappresentati a livello mondiale, è ulteriore prova di repentinità e virulenza di tali avvenimenti, che richiedono adeguate contromisure (fra cui alcune nuove ed altre consolidate).
Volendo così stilare un abbecedario − nel caso specifico, sulla base del termine crisis management riportato in figura −, i responsabili dell’azione di contrasto aziendale devono essere pienamente «consapevoli» (C) dell’impatto potenzialmente fortemente negativo (ed altrettanto a lungo termine) di ogni episodio di crisi. Ecco perché un buona gestione di essa richiede necessariamente grande «risolutezza» (R) nella mossa di difesa dell’«immagine» (I) dell’azienda stessa. Il tutto nell’ineluttabile presa di coscienza che ci si debba preparare a «sopportare» (S) periodi più o meno lunghi di turbolenza.
Nel Ventunesimo Secolo è l’utilizzo dei media (M), canale «a doppio taglio» di trasmissione e contrasto delle crisi, ad essere determinante per la stima del danno d’immagine. Ecco che la regola d’oro pare essere l’«aggressività» (A) nel concedere nulla ai propri detrattori laddove si sia agito sempre correttamente. Se certi elementi di ciascuna crisi possono sembrare simili ad altri passati, sarebbe rischioso trascurare i caratteri di «novità» (N) del fenomeno attuale: ogni approccio one size fits all, cioè di similarità rispetto alle precedenti, potrebbe non essere bastevole. Il «generoso» (G) ricorso alle proprie risorse finanziarie rappresenta, invece, l’«aggregante» della gestione di difesa della reputazione aziendale. L’«esperienza» (E) rimane fondamentale per scongiurare che una presa di posizione troppo netta o blanda possa essere controproducente a tal punto da aggravare lo status quo: in eventi recenti di grande portata umana e mediatica, non è casuale che nelle conferenze stampa si sia presentato ai giornalisti lo stesso CEO del vertice del gruppo aziendale stesso nel fare «trasparenza» (T) su quanto avvenuto o di quanto si sia accusati. Se i danni alla reputazione aziendale causati da azione individuale o eventi fortuiti (rivelatisi, poi, nefasti per l’impresa stessa) sono sempre esistiti, dipenderà sempre più massicciamente dall’efficacia del crisis management, se gli effetti negativi si riveleranno perduranti. In altre parole, se anche per le aziende vale il principio del pànta rhèi, cioè del «tutto scorre», rimane da porsi la domanda «in che stato?». La storia economica, infatti, ci insegna che la «guarigione» non è scontata.