La neutralità… croce e delizia di una scelta di campo. Rimasta a lungo sotto traccia, come reperto archeologico della guerra fredda, è tornata al centro del dibattito con l’aggressione della Russia all’Ucraina. Tutto è precipitato all’indomani del 24 febbraio del 2022, un’«operazione speciale» che di colpo ha ribaltato gli equilibri internazionali, comprese quelle istituzioni che sulla carta avrebbero dovuto impedire l’invasione (ONU, Consiglio di sicurezza). L’Unione europea reagì cercando di indebolire l’aggressore nei suoi punti nevralgici: l’apparato economico-finanziario e la rete tessuta negli ultimi decenni in Occidente dagli oligarchi filo-putiniani. Alle sanzioni, via via emanate e perfezionate, aderì prontamente anche il Governo elvetico, con alla testa il direttore degli Affari esteri Ignazio Cassis. Ma la decisione riaprì subito la questione: che ne era della plurisecolare neutralità del Paese? La stampa estera non ebbe dubbi: anche la Svizzera stava voltando pagina, allineandosi alle politiche europee e alla NATO. Esitazioni, perplessità e pareri contrari emersero invece nell’opinione pubblica nazionale. Poco prima alcune associazioni appoggiate dall’UDC avevano promosso un’iniziativa popolare mirante ad ancorare nella Costituzione il principio di una neutralità permanente («immerwährend»).
Neutrali fin da Marignano?
Nella discussione intorno alla neutralità è uso rifarsi a due grandi precedenti storici: la predicazione di Nicolao della Flüe (Bruder Klaus) e la disfatta di Marignano a opera di Francesco I. Nel primo caso si pone l’enfasi su una frase che l’eremita di Ranft avrebbe pronunciato per scoraggiare avventure belliche dissennate: «Non immischiatevi negli affari degli altri»; nel secondo caso si trae lezione da una bruciante sconfitta (1515) per accantonare definitivamente ambizioni da grande potenza. Di qui l’assunto, tuttora presente in alcuni manuali scolastici: la Svizzera è neutrale da Marignano in poi.
Gli storici hanno tuttavia dimostrato che queste due tesi (l’una di natura ascetica, l’altra di natura bellica) appartengono alla luce incerta dei miti e delle leggende. Marco Jorio – che al cammino della neutralità ha dedicato un ampio saggio, fresco di stampa nelle edizioni Hier und Jezt – sostiene che fu lo scrivano di Lucerna Hans Salat a pronunciare la sentenza attribuita a Nicolao e che comunque riguardava dissidi circoscritti alla comunità di Stans. Anche la lezione di Marignano va ridimensionata, poiché i confederati sconfitti dai francesi non «tornarono in senno» ma continuarono a battagliare per accaparrarsi nuovi territori, come quello di Vaud, strappato ai Savoia.
Un processo non lineare
Edgar Bonjour soleva ripetere ch’era antistorico far risalire la neutralità ad un preciso atto fondativo: essa era frutto di un processo, non sempre lineare, che affondava le sue radici nel Seicento, nel corso del riassetto negoziato con la Pace di Vestfalia (1648) che metteva fine alla Guerra dei Trent’anni. Prima di quel trattato la neutralità veniva intesa come non-ingerenza nei contrasti interni che periodicamente esplodevano per ragioni politiche o religiose. Solo in quel torno di tempo la vecchia Confederazione comprese che per affermare la propria indipendenza occorreva trovare il modo di difendere i confini, un compito da affidare ad appositi contingenti armati. Nel contempo i tredici Cantoni iniziarono ad estendere l’idea di neutralità alla politica estera. Si voleva così evitare che l’una o l’altra potenza europea potesse trascinare i Cantoni in un conflitto che alla fine avrebbe portato alla dissoluzione della Lega stessa.
Questa faticosa costruzione della neutralità subì una brusca interruzione con il tramonto dell’«Ancien régime» (1798) e l’ascesa di Napoleone Bonaparte. Agli occhi del Primo console, la neutralità era «una parola priva di senso». E infatti la Repubblica elvetica, ricalcata sul modello francese, non riuscì a farla rispettare negli anni delle campagne napoleoniche. Fu un periodo turbolento, segnato dal passaggio di truppe francesi e russe, che mise a dura prova la tenuta della fragile repubblica; che tuttavia ritrovò forza e vigore per rinnovare il Patto federale dopo le sconfitte di Napoleone a Lipsia e a Waterloo.
Al centro l’aiuto umanitario
La restaurazione dei vecchi poteri avvenne al Congresso di Vienna (1815), con un’appendice che integrava gli auspici elvetici: per la prima volta compariva in un documento ufficiale l’espressione «neutralità perpetua», statuto espressamente voluto e riconosciuto alla Svizzera dalle monarchie vincitrici «nell’interesse generale dell’Europa». Il che, negli anni successivi, non escluse dure prove, minacce e possibili ritorsioni da parte dell’Austria di Metternich o, più tardi, dalla Germania di Bismarck. Ma la via era ormai tracciata, all’interno di una cornice che poneva al centro l’intervento umanitario, la Croce Rossa di Henry Dunant, l’accoglienza dei perseguitati, l’offerta dei «buoni uffici» per dirimere vertenze tra potenziali belligeranti, la promozione del diritto internazionale. Una «missione» che la Costituzione federale del 1848 fece propria, pur rinunciando a conferirle la dignità di fine supremo dello Stato ma solo il valore di mezzo per conseguire uno scopo («Mittel zum Zweck»). Un altro riconoscimento decisivo giunse nel 1907 con la Convenzione dell’Aja, in cui venivano stabiliti «diritti e doveri delle potenze e delle persone neutrali in caso di guerra per terra» (art. 1 «Il territorio delle Potenze neutrali è inviolabile»).
Simpatie contrapposte
Nell’estate del 1914, allo scoppio della Grande guerra, la Svizzera riconfermò con forza il suo statuto di Paese neutrale. Tuttavia nell’opinione pubblica gli animi si accesero come un cerino, soprattutto dopo che la Germania aveva deciso di violare la neutralità belga per raggiungere velocemente Parigi. Lo «stupro del Belgio» scavò un profondo fossato tra i Cantoni germanofoni e la Romandia; anche in Ticino l’indignazione fu enorme, con in prima fila la «Gazzetta Ticinese» diretta dal Consigliere nazionale Emilio Bossi in arte Milesbo, il quale pressoché ogni giorno esortava le autorità ad uscire dall’ignavia per combattere, almeno sul piano delle idee, «quel pangermanesimo che tenta di imporre all’Europa la sua egemonia militare, politica ed economica».
A ostilità terminate, nel novembre del 1918, anche l’indenne Svizzera avvertì la necessità di rivedere la sua politica estera e di assumere un ruolo più attivo nell’opera di pacificazione tra gli Stati. Giuseppe Motta, dal 1920 responsabile del Dipartimento politico (affari esteri), non fece mancare il suo appoggio alla neocostituita Società delle Nazioni (SdN) con parole inequivocabili: «La Svizzera ha il dovere politico e morale di collaborare ad un’opera grandiosa destinata a mantenere il diritto e la pace nel mondo». Per Motta la proposta di aderire alla SdN non fu tuttavia una passeggiata: l’ingresso fu accettato dalla maggioranza dei votanti, ma non dai Cantoni rurali della Svizzera tedesca. E queste divisioni permasero anche negli anni della cosiddetta «neutralità differenziata», che implicava per la Svizzera l’adozione delle sanzioni economiche decretate dalla SdN in caso di violazione dei trattati. Anzi, aumentarono, al punto che nel 1938 il Consiglio federale decise di ritornare alla neutralità integrale per non inimicarsi i Paesi vicini – Italia e Germania – che nel frattempo si erano dati ordinamenti dittatoriali e imperialistici.
Il sostantivo e l’aggettivo
Alla nozione di «neutralità integrale», la Svizzera rimase fedele anche durante la Guerra fredda, elevandola a principio inscalfibile della sua diplomazia. I giuristi suggerirono però di relativizzare il principio introducendo una fondamentale distinzione: quella tra «diritto della neutralità» e «politica della neutralità». La soluzione avrebbe permesso alle autorità di muoversi con maggior agio e libertà nelle relazioni internazionali, come puntualmente avvenne, sia pur lentamente, aderendo alle iniziative promosse dall’ONU o da altre organizzazioni sovranazionali. Sappiamo quanto sia stato difficoltoso questo cammino, quanti malumori abbiano generato le consultazioni che avevano per tema argomenti di politica estera, le collaborazioni con le operazioni di «peacekeeping», la partecipazione ad organismi patrocinati dall’ONU. Ogni volta è parso necessario accompagnare il sostantivo (la neutralità) con un aggettivo: a seconda delle contingenze doveva essere attiva, cooperativa, armata, permanente, benevola… Resta il fatto che la maggioranza della popolazione, a detta dei sondaggi, rimane aggrappata a una concezione della neutralità che somiglia a una professione di fede. Si rimane insomma nel regno delle narrazioni mitiche, pur intuendo che spesso la «Realpolitik» parla un’altra lingua, ben più prosaica.
Bibliografia
Edgar Bonjour, Storia della neutralità svizzera. Compendio. Edizioni Casagrande-Longanesi, Bellinzona, 1981;
Marco Jorio, Die Schweiz und ihre Neutralität. Eine 400-jährige Geschichte, Hier und Jetzt, Baden, 2023.
Gérard A. Jaeger, Henry Dunant. L’uomo che inventò la Croce Rossa, Dadò editore, Locarno, 2023.
Le acrobazie della neutralità
Svizzera, la nascita e l’evoluzione di un concetto tornato al centro del dibattito con l’aggressione della Russia all’Ucraina
/ 24.04.2023
di Orazio Martinetti
di Orazio Martinetti