L’avverbio malandrino lasciamolo dov’è

Media e diritto - Una modifica del Codice di diritto processuale introdotta finora solo dal Consiglio degli Stati lo scorso giugno apre un dibattito in merito alla libertà dei giornalisti
/ 13.09.2021
di Enrico Morresi

Sarà stata la vicinanza delle ferie estive, sarà che la questione deve passare ancora all’esame del Consiglio nazionale: di fatto ha suscitato poco interesse anche nei media la decisione adottata dal Consiglio degli Stati il 16 giugno di modificare l’articolo 266 del Codice di diritto processuale civile: un articolo che consente al giudice di bloccare un prodotto di stampa o un programma radiotelevisivo potenzialmente lesivo dei diritti di qualcuno prima che sia pubblicato o mandato in onda. Già nel 1985, all’epoca della sua introduzione nel codice, la possibilità di un simile intervento era stata denunciata come censura, in contraddizione con l’art. 17 cpv. 3 della Costituzione federale (per il dibattito sulla questione rimando al mio L’onore della cronaca, Casagrande 2008, pp. 66ss). Le prime applicazioni erano state di fatto tali da destare serie preoccupazioni. Alla Televisione della Svizzera italiana, per esempio, fu impedito di diffondere la presentazione del processo al re del contrabbando di droga Escobar senza che il giudice neppure avesse visionato il servizio. Dopo quelle incertezze iniziali, però, l’articolo del Codice (ora «di procedura civile») è stato applicato in modo tutto sommato accettabile. Vi fu un solo caso veramente clamoroso di conflitto tra stampa e magistratura, con la decisione della Televisione romanda di passare oltre l’ingiunzione del magistrato nel famoso «caso Tornare» (sul quale il Consiglio della stampa pubblicò una presa di posizione che fa ancora testo sui rapporti stampa-magistratura, 1/1994).

L’occasione di riportare alla ribalta il problema è attualmente fornita dalla discussione di un disegno di legge proposto dal Consiglio federale, inteso all’aggiornamento di tutto il codice di procedura: niente di sostanziale, una discussione piuttosto tecnica. In un contesto così «innocente», una modifica redazionale davvero minima dell’art. 266, accettata durante la discussione commissionale, poteva passare inosservata. Fu l’avvocato Matthias Schwaibold, legale dell’editore Ringier, a denunciarla con un articolo veemente (Ein Attentat auf die Meinungsfreiheit, Medialex 3/2021), cui hanno fatto eco immediata le prese di posizione delle associazioni degli editori e dei giornalisti. Perché? L’art. 266 ora in vigore, intitolato «Misure nei confronti dei mass media», offre la possibilità al giudice di ordinare un provvedimento «cautelare» bloccando un prodotto mediatico se (a) «l’incombente lesione dei diritti dell’istante è tale da potergli causare un pregiudizio particolarmente grave, (b) manifestamente non vi è alcun motivo che giustifichi la lesione, (c) il provvedimento non appare sproporzionato». Sufficienti queste precauzioni per tenere lontana la minaccia della censura? Finora la risposta dei giuristi (ma anche dei giornalisti) è sempre stata positiva. Ma cancellando alla lettera (a) l’avverbio particolarmente il rischio della censura sarebbe ancora tenuto lontano?

La cancellazione dell’avverbio non era prevista nel progetto del Consiglio federale. Fu il «senatore» di Zugo Peter Hefti a proporla in commissione e poi a rilanciarla in aula. Karin Keller Sutter ribadì, a nome dell’Esecutivo, di ritenerla inutile. Ma il 16 giugno la proposta Hefti è stata accettata dal Plenum del Consiglio degli Stati, con 20 voti contro 13. Il disegno di legge è ora trasmesso all’altra camera, il Consiglio nazionale, che lo discuterà in autunno.

Come motiva, il «senatore» Hefti, la sua proposta? La possibilità che il giudice intervenga decretando la sospensione provvisoria dell’articolo o del servizio è a suo avviso frenata da una tale somma di condizioni, da chiedersi (è il suo parere) se le parti siano davvero uguali davanti alla legge. La soppressione dell’avverbio «particolarmente» tende secondo lui a ristabilire l’equilibrio.

Che dire? Davvero l’applicazione dell’articolo approvato nel 1985 ha dato luogo allo squilibrio denunciato da Hefti? Scrivessimo per una rivista di diritto, a questo punto citeremmo le sentenze dei tribunali, soprattutto quelle del Tribunale federale, per verificare se davvero quella precauzione sia stata mai criticata come eccessiva o discriminatoria (è appena uscito dall’editrice Schulthess un volume di proporzioni terrificanti: Handkommentar zur Schweizerischen Ziviliprozessordnung, Art. 1-408 ZPO, in cui credo si possa trovare tutto, o quasi tutto). Io credo di potermi fidare del «senatore» Carlo Sommaruga – intervenuto per contrastare la proposta Hefti – quando dice che mai, né dal Tribunale federale né da tribunali cantonali, è stata sollevata un’obiezione o è stata sollecitata la politica a modificare testo e applicazione dell’art. 266. Aggiungo che sul versante deontologico, che conosco meglio, un’esperienza positiva è stata fatta con l’adozione del principio: audiatur et altera pars. La direttiva del Consiglio della stampa lo esplicita così al punto 3.8: «Dal principio di equità e dalla regola etica che prescrive di ascoltare anche l’altra parte deriva il dovere del giornalista, prima della pubblicazione di addebiti gravi, di sentire gli interessati», nonché di tenerne conto nel servizio. La legge e la deontologia sono dunque concordanti. O no?

La resistenza all’ingiunzione del giudice, da parte del giornalista, potrebbe essere difesa come un atto di obiezione di coscienza? Anche questa possibilità il Consiglio della stampa l’ha scartata (si tratta dopotutto di misure provvisionali), dando torto alla Televisione romanda che aveva trasmesso un servizio malgrado l’ingiunzione del pretore (è il «caso Tornare» descritto nella Presa di posizione 1/1994) (*). Ma è possibile seguire anche un’altra strada: chi scrive l’ha sperimentata da capo-servizio alla TSI, la sera in cui era si stava per mandare in onda un servizio critico per la polizia: si concordò di premettere alla messa in onda un intervento in voce che desse conto anche delle ragioni della parte criticata. L’Autorità indipendente di ricorso in materia di radio e televisione ha contribuito per parte sua a risolvere alcuni casi critici sollevati dal pubblico.
La mia opinione, per concludere, è che l’abolizione dell’ormai famoso avverbio («particolarmente») non si giustifichi. Anche Pierre Tercier, ispiratore degli articoli del Codice civile attualmente vigenti, la ritiene «un segnale pericoloso». Capisco chi, come l’ex collega Edy Salmina, ritiene che il potere reale sia troppo squilibrato in favore dei media. Ma vi si rimedia cancellando un avverbio? Temo che la maggioranza del Consiglio degli Stati (non il Consiglio federale, però) abbia solo, emotivamente, ceduto alla retorica antimedia coltivata da una parte dell’opinione pubblica e dei politici. Perciò al Consiglio nazionale auguro di riaggiustare il tiro.

Nota *
Le prese di posizione del Consiglio svizzero della stampa sono tutte raccolte nel sito https://presserat.ch