L’Atlantico, unisce o divide?

Il mondo che verrà – 3. parte: il nazionalismo di Trump sarà il nuovo collante per l’Europa?
/ 17.07.2017
di Federico Rampini

Nella storia ci sono gli strappi, le svolte improvvise e traumatiche, anche se magari i contemporanei non le percepiscono immediatamente come tali. Quando Cristoforo Colombo partì con le tre caravelle alle ricerca della «rotta occidentale» per le Indie, e approdò invece in un continente nuovo (almeno per l’uomo bianco), nessuno percepì quel che stava per accadere. Fu l’inizio della decadenza per «l’economia mediterranea», quella che lo storico francese Fernand Braudel considerò come la prima forma di globalizzazione. Il Mare Nostrum diventò progressivamente marginale nei flussi degli scambi, sostituito dall’Atlantico. Questo sconvolse le gerarchie, i rapporti di forze tra nazioni. Cominciò a delinearsi un lento declino di potenze mediterranee come le Repubbliche marinare (Venezia, Genova), a vantaggio di porti come quelli olandesi e francesi. Portogallo e Spagna, più proiettate verso l’Atlantico, e con delle monarchie che avevano consolidato il controllo sulle loro nazioni, riuscirono a reagire meglio delle piccole città-Stato italiane e costruirono imperi ultraoceanici. Si posero le basi per l’ascesa dell’Inghilterra.

L’Atlantico divenne il centro della nuova economia globale. Lo sarebbe rimasto per mezzo millennio. Fino a una storia molto recente: il passaggio di consegne dall’impero britannico alla nuova egemonia degli Stati Uniti nel corso del Novecento confermò che il baricentro del potere politico e militare, industriale e tecnologico, finanziario e culturale, rimaneva pur sempre l’Atlantico. L’entrata in guerra degli Stati Uniti nella prima e soprattutto nella Seconda guerra mondiale, consolidò la rete di rapporti tra la potenza leader del nuovo continente e la vecchia Europa. Il Patto atlantico si definì proprio in base a una geografia, identificando in quell’oceano l’asse che racchiude l’idea di Occidente: una comunanza d’interessi ma anche di valori, oltre che un’alleanza per la difesa.

E oggi, che cosa ne rimane? L’Atlantico continua a unirci, o si sta… allargando? Nel corso del 2017 lo shock di due vertici (G7 di Taormina e G20 di Amburgo) ha aperto gli occhi agli europei. Donald Trump è davvero un nazionalista allo stato puro, la cooperazione con gli europei non lo interessa. «Non sono stato eletto per fare il presidente del mondo», un suo slogan ricorrente, si sta traducendo in atti concreti. Ma che prezzo può pagare l’America stessa, se abbandona l’Europa al suo destino? Non ci sono scenari traumatici nell’immediato, non è concepibile un divorzio veloce: troppo antichi e consolidati sono i legami politici e militari, economici e valoriali, perché un solo presidente possa distruggerli. È sul lungo termine che il logoramento dei rapporti può comportare danni strategici agli interessi americani.

Difesa e alleanze

Lo strappo di Trump è brutale ma non è senza precedenti. Già con George W. Bush ci fu una presidenza unilateralista, con Donald Rusmfeld e i neoconservatori che apertamente disprezzavano la «vecchia Europa» pacifista e imbelle. Paragonata a Venere, rispetto al pianeta Marte che sarebbe l’America. La dissociazione franco-tedesca (Chirac-Schroeder) dall’invasione dell’Iraq nel 2003 contribuì alla mancanza di legittimazione internazionale di quella guerra. Col tempo un allentamento del rapporto atlantico può contribuire forse alla costruzione di un polo di difesa autonomo; soprattutto può incoraggiare tentazioni neutraliste che sono sempre state presenti sul Vecchio continente: Germania in testa. È lo scenario di una «finlandizzazione», già paventato nella Guerra fredda. L’America deve almeno una parte della sua forza globale alla rete di alleanze che seppe mantenere dalla Seconda guerra mondiale.

Russia

Il primo a poter trarre vantaggi dal gelo euro-americano è Vladimir Putin. La Russia è una superpotenza militare eurasiatica, molto più vicina a noi di quanto lo sia l’America. È anche una fonte di approvvigionamento energetico. Da tempo c’è insofferenza verso le sanzioni inflitte a Mosca, che creano danni alle economie europee mentre sono irrilevanti per quella americana. Diverse lobby confindustriali, dal- l’Italia alla Francia alla Germania, lavorano per revocare le sanzioni. La voglia di «appeasement» si rafforza se Washington diventa un partner inaffidabile. Il che aprirebbe nuovi spazi all’espansionismo russo in Europa centrale e nel Baltico.

Cina

La Nuova Via della Seta avviluppa l’Europa con investimenti nelle infrastrutture, dai porti alle ferrovie. Xi Jinping si è già candidato a sostituire Trump come leader «globalista». Una ritirata americana accelera la penetrazione cinese: commerciale, finanziaria, e alla fine anche politica. Con Trump che abbandona la bandiera dei diritti umani, non saranno gli europei a premere su Pechino per un’evoluzione democratica. Già adesso il volume degli investimenti è in crescita in ogni settore: in Italia, spazia dal calcio alle utility, crea legami profondi e durevoli.

Fiscalità

L’Europa è stata generosa di privilegi fiscali alle multinazionali Usa: il caso più eclatante è il trattamento garantito per anni dall’Irlanda alla Apple. Già c’è stato un indurimento con le procedure della Commissione di Bruxelles che puntano a chiudere gli spazi dell’elusione fiscale. In palio c’è un bottino di centinaia di miliardi di gettito, su cui si può aprire una guerra fiscale tra le due sponde dell’Atlantico. L’America ha molto più da perdere, vista la ricchezza delle risorse parcheggiate offshore dalle sue multinazionali.

Economia digitale

In parallelo con l’elusione fiscale, un vasto contenzioso investe i giganti della Silicon Valley. Da Google a Facebook, da Amazon a Uber, il dominio Usa nell’economia digitale è totale. È un’egemonia fondata anche su sistemi di regole squilibrate e inique: per esempio nel saccheggio dei contenuti, dalle immagini alle news, fino alla privacy individuale. Obama difese gli interessi della Silicon Valley. Colpendo Google per il suo comportamento monopolistico, l’antitrust di Bruxelles ha segnalato che questo sarà un terreno di battaglia. Potrebbe estendersi anche ai paesi europei quella tendenza a ri-nazionalizzare Internet, che è già in atto da tempo – per altre ragioni – nei regimi autoritari dalla Cina alla Russia all’Iran. Il danno per la Silicon Valley sarebbe immenso.

Ma ora rovesciamo il punto di vista, dopo avere esaminato che cosa perde l’America se gira le spalle all’Atlantico, proviamo a immaginare se sia realistico uno scenario in cui l’Europa «fa da sola». Angela Merkel ha detto: «Ora l’Europa deve prendere in mano il proprio destino». È un obiettivo realistico? Quali sono i grandi dossier sui quali dovremmo emanciparci dalla leadership americana?

Difesa

Ci fu un’epoca, subito dopo la caduta del Muro di Berlino, in cui venne teo-rizzato un futuro dell’Europa come «superpotenza erbivora». Cioè capace di esercitare una vera egemonia fondata solo sul soft power: ricchezza economica, modello di diritti e inclusione sociale, patrimonio culturale. Presto arrivarono le guerre dei Balcani a spezzare quell’intervallo pacifico; più di recente il revanscismo russo in Ucraina, i segnali di aggressività di Mosca nel Baltico. L’Europa occidentale dal 1945 è sempre vissuta sotto la protezione militare degli Stati Uniti, poi estesa agli ex-satelliti del Patto di Varsavia. Una difesa europea autonoma costerebbe cara, i contribuenti italiani francesi o tedeschi non sono pronti a pagare il conto.

Energia

Le ricadute della leadership militare americana si estendono all’approvvigionamento energetico. L’alleanza tra Stati Uniti e Arabia Saudita, il ruolo della Quinta e Sesta Flotta Usa nel Mediterraneo e nel Golfo Persico, garantiscono la sicurezza delle rotte navali. L’America in teoria potrebbe farne a meno: si avvicina all’autosufficienza energetica, quello che importa lo acquista da vicini come Canada e Messico. L’Europa (con l’eccezione della Francia nuclearizzata) dipende da Russia, Medio Oriente e Nordafrica, è vulnerabile a shock politici o ricatti.

Crescita e lavoro

La divaricazione tra Nord e Sud dell’Europa si è acutizzata quando la crisi economica del 2008 ha incrociato le rigidità dell’euro. La Germania ha imposto un’austerity che è tra le cause della stagnazione in Italia, Grecia, Spagna. I paesi dell’Europa mediterranea hanno spesso trovato un appoggio nell’America, più favorevole a politiche di sostegno della crescita.

Commercio globale

La Germania ha un attivo commerciale col resto del mondo e regge bene la competizione con la Cina. Non si può dire altrettanto di Francia e Italia. Le economie più deboli dell’Ue si riconoscono negli slogan di Trump su «reciprocità» e «commercio equo», mentre la Germania ha un interesse opposto.

Immigrazione

Oggi è l’Italia in prima linea nell’esodo di profughi, e si sente abbandonata dai vicini. Due anni fa toccò alla Germania, prima che l’accordo con la Turchia chiudesse di fatto la strada dei Balcani. E perfino la potente Germania venne lasciata sola. Sul governo dei flussi migratori, l’Europa non è affatto unita.

Terrorismo

Attentati feroci hanno preso di mira Parigi e Bruxelles, Nizza e Berlino, Londra e Manchester. Si è avvertita la mancanza di coordinamento tra polizie e servizi segreti dei paesi Ue. L’incapacità degli Stati del Vecchio continente a cooperare nell’anti-terrorismo tradisce diffidenze, miopie, incrostazioni burocratiche.

Brexit

Il negoziato su Brexit assorbirà tanta attenzione della diplomazia e tecnostruttura europea. È poco verosimile che in parallelo «quel che resta dell’UE» riesca a elaborare un progetto forte per riempire il vuoto di leadership Usa. Del resto sul prezzo da far pagare a Londra ci sono già divisioni fra tutti gli altri.

La teoria dello shock esterno

È l’idea secondo cui lo shock di un’America isolazionista e antagonista, può compattare gli europei. Ma se non ci sono riusciti altri shock esterni come la crisi economica del 2008, il terrorismo, l’Ucraina, l’arrivo dei profughi, è difficile sostenere che «stavolta è diverso».