Chi è Najla Bouden Romdhane

Ingegnere di formazione, la neo premier ha alle spalle una lunga esperienza accademica e nella ricerca. Classe 1958, ha lavorato con la Banca mondiale per un progetto sull’occupazione dei giovani tunisini. Dal 2006 al 2016 è stata la principale consigliera di diversi ministri dell’Istruzione superiore e della ricerca scientifica.

Najla Bouden Romdhane è la prima donna premier nel mondo arabo. Questo è il messaggio che i media nazionali hanno sottolineato subito dopo la sua nomina, evocando il peso delle donne tunisine nella regione. «Sono onorata di essere la prima donna a occupare la posizione di primo ministro in Tunisia», ha scritto sul suo profilo Twitter aperto poco dopo la nomina. «Lavorerò per un formare un Governo coerente che affronti le difficoltà economiche del Paese, combatta la corruzione e risponda alle richieste dei tunisini». La prima ministra non è però un’esperta di economia e sono in molti a pensare che sarà una pedina nelle mani di Saied.


L’astuta mossa di Saied

Il presidente tunisino, che da due mesi tiene il Paese in scacco, nomina a sorpresa una prima ministra con il compito di formare il nuovo Governo. Un’operazione di facciata a difesa del suo colpo di Stato morbido?
/ 04.10.2021
di Francesca Mannocchi

È la storia di un Paese spezzato, quella che sta raccontando Tunisi da oltre due mesi, da quando il 25 luglio scorso il presidente Kais Saied ha licenziato il primo ministro Hichem Mechichi e congelato il Parlamento. Un Paese spezzato e una piazza divisa. Da una parte gli oppositori del presidente, che sventolano le copie della Costituzione del 2014, gridando «Saied non toccherà le nostre conquiste, non gli lasceremo riscrivere la Costituzione!». Dall’altra una fetta di popolazione che esprime il proprio consenso a Saied gridando: «Basta corruzione, abbiamo bisogno di risposte, abbiamo bisogno di lavoro!». Due manifestazioni distanti e opposte solo apparentemente che disegnano le anime di una Nazione di fronte a problemi strutturali che invece di risolversi vanno via via aggravandosi: la paralisi politica, la stagnazione economica, la corruzione. Tutti elementi a cui si è unita la pandemia da Coronavirus che ha moltiplicato il numero di disoccupati ed esacerbato gli animi.

Due mesi fa la gente è scesa in piazza chiedendo al presidente una risposta forte e Saied l’ha data, concentrando su di sé pieni poteri e licenziando il Parlamento. Il 25 luglio il presidente ha motivato le sue decisioni affermando che la crisi in cui versava il Paese fosse così disastrosa da necessitare una svolta drastica, così ha esautorato il Governo – sia ministri che funzionari – e ordinato mandati di arresto e restrizioni ai viaggi all’estero e agli spostamenti interni per parlamentari, giudici, avvocati, uomini d’affari accusati di corruzione. Allora Saied affermava che le sue decisioni non erano contrarie alla Costituzione e che aveva agito secondo un’interpretazione dell’articolo 80, una clausola di emergenza che, in situazioni di crisi estrema, prevede misure eccezionali le quali però dovrebbero essere approvate dalla Corte costituzionale allo scadere del trentesimo giorno dalla loro applicazione. Di giorni, invece, ne sono passati molti di più e intanto le misure di Saied anziché ammorbidirsi si sono inasprite, aprendo tuttavia la strada a colpi di scena.

Ma andiamo con ordine: due settimane fa Kais Saied ha comunicato al Paese che avrebbe governato per decreto assumendo su di sé l’autorità esclusiva e che la sospensione del Parlamento, dell’immunità giudiziaria dei legislatori e il congelamento della loro retribuzione sarebbero andati avanti fino a data da definire, di fatto rafforzando ulteriormente il potere quasi esclusivo che si era preso due mesi fa. Come reazione i cittadini sono scesi di nuovo in piazza. Alcune migliaia di persone hanno partecipato a un raduno di fronte all’iconico Teatro nazionale, storicamente sede di tutte le principali manifestazioni di Tunisi. Si trattava ancora di una piazza spezzata. Da un lato c’era chi chiedeva il rispetto della Costituzione e il ripristino delle attività del Parlamento, con slogan di questo tenore: «La gente vuole la fine del colpo di stato». Dall’altro chi supportava le decisioni di Saied, giudicate l’unico modo possibile per uscire dall’impasse economica che vive la Tunisia. Saied nei giorni successivi è stato criticato per quello che a tutti gli effetti è un colpo di stato morbido e ha capito che rischiava di perdere il largo consenso di cui gode tra la popolazione.

Mercoledì 29 settembre ha sorpreso tutti nominando una prima ministra, la prima donna a ricoprire la prestigiosa carica nella storia del Paese. Si tratta di Najla Bouden Romdhane, di formazione ingegnere, personalità poco nota che ha lavorato in passato per la Banca mondiale. Toccherà a lei dunque guidare il Paese fuori dalla stagnazione. È una mossa astuta, quella di Saied, che ha nominato Najla Bouden Romdhane e le ha chiesto di formare rapidamente un nuovo Governo. Astuta perché è una donna e perché ha lavorato per la Banca mondiale. Saied, forse, pensa che questi due elementi possano mettere in ombra la centralizzazione dei poteri che ha disposto negli ultimi mesi. Ora il grande interrogativo è cosa succederà alla giovane democrazia, spesso citata come l’unica storia di successo nella serie di rivolte che hanno innescato le cosiddette Primavere arabe, e come si muoveranno gli antagonisti di Saied?

Chi si oppone al presidente sostiene che le sue decisioni di fatto stiano sovvertendo l’ordine costituzionale, segnando passi verso la deriva autoritaria. Chi lo critica parla di golpe fin da luglio. Il primo oppositore è il più grande partito politico del Paese, il partito islamico moderato Ennahda, che già in estate aveva condannato le mosse di Saied invitando le persone a «un’instancabile lotta pacifica» e definendo le decisioni del presidente «un flagrante colpo di Stato contro la legittimità democratica». Ennahda non si aspettava probabilmente il supporto che i tunisini hanno manifestato a Saied, così, di fronte alle bandiere del loro partito bruciate e agli assalti alle sedi in varie province e distretti, i leader del partito islamico hanno deciso di condannare le decisioni di Saied mantenendo però un profilo basso. Atteggiamento che ha provocato un dissidio interno.
Sono oltre un centinaio i membri del partito che di recente hanno annunciato le loro dimissioni, accusando il capo di Ennahda, Rachid Gannouchi, di non aver saputo trovare una risposta credibile per formare un fronte unito da opporre a Saied per affrontare la crisi del Paese e dare risposte ai cittadini.

Gli analisti tunisini affermano che la mossa di governare per decreto mini all’origine le conquiste post rivoluzionarie, cioè rischi di disintegrare i principali successi del post-2011 contro ogni forma di regime autoritario. Adnen Mansar, presidente del Centro di studi strategici sul Maghreb (Cesma) ha affermato a tale proposito che «gli ultimi decreti contraddicono completamente la Costituzione del 2014 che istituiva un sistema parlamentare; i decreti sono piuttosto in linea con la Costituzione del 1959 cioè la stessa che è stata ribaltata dalla rivolta di 10 anni fa. Questa mossa mette una spina sui principi di un sistema democratico». Gli fa eco Osama al Khalifa, un alto funzionario del Cuore della Tunisia, il secondo partito in Parlamento, che ha accusato Saied di aver condotto un «golpe premeditato». Dello stesso avviso il principale sindacato tunisino che conta un milione di membri, l’Ugtt, che, con la voce di un suo alto funzionario, Anour Ben Kadour, ha dichiarato: «La Tunisia si sta dirigendo verso un Governo individuale assoluto».

Il 2015, anno in cui il Quartetto per il dialogo nazionale tunisino ha vinto il premio Nobel per la pace, sembra lontanissimo. Ahmed Driss, professore di diritto costituzionale nonché presidente del Centro di studi mediterranei e internazionali (Cemi), recentemente intervistato da «Jeune Afrique» ha detto: «Il presidente ha deciso di impadronirsi di tutti i poteri e lo fa al di fuori della Costituzione, di cui ha conservato solo una piccolissima parte (...). Ma è ovvio che non sarà più la stessa in termini di struttura e di equilibrio dei poteri, è un capovolgimento verso un regime presidenzialista e non presidenziale, peggio di quello vissuto sotto Ben Ali».

Tutto questo in un Paese in cui il 30 per cento dei giovani non lavora e per molti, troppi, che vivono nelle zone periferiche, gli effetti della rivoluzione non si sono mai visti. È a loro, evidentemente, che Saied ha saputo parlare per essere supportato nelle sue decisioni giudicate impopolari, sì, ma necessarie. Si era presentato così, d’altronde, alle elezioni del 2019, il professor Saied, al grido di «La gente vuole». Vuole lavoro, possibilità, giustizia. E non vuole la corruzione. «La sovranità appartiene al popolo», aveva dichiarato al tempo della sua campagna elettorale, «tutto deve partire dal popolo». E così ha vinto, salvo centralizzare il potere solo due anni dopo. I prossimi mesi saranno decisivi per capire se la Tunisia saprà emanciparsi dalla deriva autoritaria o se la rivoluzione avrà fatto il giro completo, come in Egitto, ripristinando una dittatura, magari morbida, ma decisamente lontana dal percorso democratico che tutti si aspettavano dal Paese della Rivolta dei ciclamini.