Il presidente francese Emmanuel Macron ha un’inclinazione a smentirsi. In questo caso il testacoda è clamoroso. Dopo aver fatto fuoco e fiamme contro i golpisti nigerini, trattati da intoccabili in quanto non «legittimi», sottobanco ha ordinato ai suoi militari di trattare il ritiro, non sappiamo quanto graduale e limitato, dalle basi installate nel Paese saheliano. Primo passo verso un «ridispiegamento» strategico della Francia in Africa e nell’Oltremare. In parole povere, buona parte degli avamposti militari piazzati a protezione degli interessi e del prestigio dell’Esagono nell’ex impero verranno chiusi, le missioni ridotte o riciclate. Dopo gli otto colpi di Stato riusciti (dei falliti si è perso il conto) in tre anni nella ormai ex Françafrique – dall’ultimo, quello del 30 agosto in Gabon, già perno organizzato da Parigi per salvare la fedele famiglia Déby, alla Guinea, dal Mali al Burkina Faso (entrambi doppi) e gli ultimi disastri estivi di Niamey (capitale del Niger) e Libreville (Gabon) – all’Eliseo non restavano alternative. Gli stessi sondaggi di opinione pubblica mostrano che la maggioranza dei francesi favorisce il ritiro da posizioni coloniali oramai insostenibili.
Questa sconfitta ricorda il trauma della fallita spedizione franco-britannica a Suez, nel 1956, ultimo urrà dei due grandiosi imperialismi. Sull’onda della contemporanea guerra d’Algeria, quel disastro segnò l’inizio della fine della Quarta Repubblica. Questo potrebbe produrre il tramonto della Quinta? Forse. Di certo non c’è un generale de Gaulle che attende in panchina a Colombey-les-deux-églises (Alta Marna). La prospettiva di una profonda crisi politica scatenata dalla perdita delle post-colonie e insieme dalle rivolte interne, a sfondo di immigrazione maghrebina e africana, è comunque realistica.
La Beresina africana colpisce infatti la République in una fase di fragilità accentuata. Incrocio di crisi economica, sociale ma soprattutto culturale. Identitaria. La ritirata africana condita dalle rivolte interne a sfondo immigratorio suona smentita dell’assimilazionismo. Tesi e prassi della Francia nelle colonie, oltre che internamente. Opposta al multiculturalismo di matrice inglese, di cui i francesi temevano, a ragione, gli effetti di separazione nella società metropolitana. I guaio è che gli stessi effetti, forse moltiplicati, derivano dall’assimilazionismo fallito. L’idea di trasformare popolazioni aliene in cittadini a pari titolo, animata da un’ideologia progressista di fondo illuminista, è restata in parte notevole allo stato ideale. In Francia, ancor più nelle ex colonie. Dove se ne avvertono i rimbalzi diacronici, a più di mezzo secolo dalle indipendenze degli anni Sessanta. Non solo l’assimilazione è fallita, ma ha prodotto una francofobia galoppante nelle Afriche equatoriali e occidentali dove ancora circola il franco Cfa.
Bisogna prendere atto che la conciliazione fra universalismo e (neo)colonialismo è impossibile. Constatazione dolorosa e che in certa misura spiega la contraddizione dell’Eliseo. Il fallimento francese sigilla anche la fine dell’utopia eurafricana che era alla base del progetto europeista. Negli anni Cinquanta del Novecento la Francia si era battuta per integrare le sue colonie – oltre ovviamente ai dipartimenti algerini – nella nascente Comunità europea. Non avendo le risorse per pagarsi l’impero, pensava di poterle estrarre per buona quota dai soci fondatori della Cee, tedeschi in testa. Alla fine, pochi giorni prima della firma dei trattati di Roma (25 marzo 1957), si raggiunse un compromesso per l’associazione (integrazione morbida e limitata) delle colonie. Poco dopo si alzava, irrefrenabile, l’ondata delle indipendenze, fine del progetto Eurafrica in salsa francese.
Oggi constatiamo che tedeschi, italiani e altri partner europei che avevano finora sostenuto, anche con modesti contingenti militari, le ambizioni di Parigi in Africa – questione di grandeur – si sfilano apertamente dalla leadership francese. Berlino e Roma non hanno pensato nemmeno per un minuto di valutare le proposte di Parigi che miravano a organizzare un controgolpe immediato. La prospettiva di combattere una guerra neocoloniale nelle Afriche profonde non piace a nessuno. Motivo in più, per Macron, di impostare l’imbarazzata marcia indietro. L’aspetto più grave per la Francia è però la contrapposizione con l’America. Washington ha accettato da subito di negoziare con i golpisti, quando ancora Parigi tuonava contro gli usurpatori. Realpolitik. Senza intesa con gli americani, le velleità tardo-imperiali della Quinta Repubblica perdono di senso. Lo stesso scenario di Suez, 67 anni dopo. Nevrosi geopolitica, apparentemente incurabile. Intanto russi, turchi e cinesi stanno riempiendo il vuoto francese. Non c’è proprio da festeggiare per noi europei.