Largo alle donne!

Suffragio femminile – Storia della conquista lenta e travagliata del diritto di voto rosa
/ 19.02.2018
di Alfredo Venturi

Settantatré voti a favore, centonovantasei contro, dunque le donne restino a casa, niente partecipazione elettorale per loro. È l’estate del 1867, evidentemente i tempi non sono ancora maturi perché il Regno Unito possa sbarazzarsi di quello che John Stuart Mill, filosofo, economista e deputato liberale di Westminster alla Camera dei Comuni, definisce «un relitto del passato». E così il suo emendamento alla legge di riforma del sistema parlamentare, con cui intendeva eliminare quel relitto allargando alle donne il diritto di voto, viene impietosamente bocciato. Prevale dunque la tradizione, la politica connotata come maschile. Dovrà passare ancora mezzo secolo denso di manifestazioni, di marce, di suffragette scatenate contro le istituzioni misogine, perché finalmente sia riconosciuto quel diritto: traguardo raggiunto esattamente un secolo fa. E ancora non proprio del tutto: infatti la legge del 1918 riconosce come elettrici soltanto le donne che hanno almeno trent’anni. La lacuna sarà colmata nel 1928, completando la parità con l’elettorato maschile.

Del resto la Gran Bretagna, dove pure il movimento delle suffragette nato nel 1872 è particolarmente visibile con le sue spettacolari manifestazioni di piazza, non è il primo Paese a riconoscere il voto alle donne. L’hanno preceduta le democrazie scandinave: prima la Finlandia nel 1907, quindi la Svezia, la Norvegia, la Danimarca. Ancor prima la partecipazione femminile all’esercizio del voto era stata affermata in alcuni effimeri contesti rivoluzionari, come la Repubblica Romana del 1849 o la Comune di Parigi del 1871. La novità era stata introdotta anche in territori autonomi ma non sovrani: come la Nuova Zelanda che riconobbe il voto alle donne fin dal 1893, quando era parte dell’Impero britannico. In altri dominions di Sua Maestà l’evoluzione procede in parallelo con la madrepatria: per esempio il Canada approva il suffragio femminile nel 1918, con la sola eccezione del Québec: nella provincia francofona le donne dovranno aspettare il 1940 per poter andare a votare.

Anche negli Stati Uniti l’evoluzione verso il suffragio femminile è lenta e travagliata, fino all’approvazione nel 1920 del diciannovesimo emendamento alla costituzione. L’emendamento equipara uomini e donne affermando che l’esercizio del diritto di voto «non potrà essere negato o limitato dagli Stati Uniti o da qualsiasi stato in ragione del sesso». Prima di questa regolamentazione federale già alcuni stati avevano preceduto l’evoluzione: il primato spetta al Wyoming, che concesse il diritto elettorale alle donne fin dal 1868. In California il voto femminile fu autorizzato nel 1911. Tutti precedenti che incoraggiarono il movimento della NAWSA (Associazione nazionale americana per il suffragio femminile), nata nel 1890 dalla fusione di gruppi precedenti, che ispirandosi alle militanti britanniche condusse un’azione altrettanto vivace, vanamente contrastata dalla vecchia America rurale e conservatrice, gelosa custode dei valori del passato, avversa come sempre alle innovazioni proposte dagli spregiudicati abitanti delle metropoli costiere.

La battaglia per il suffragio femminile ha radici antiche. Nel 1791 viene pubblicato a Parigi un saggio che fa molto parlare di sé, la Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina, autrice la drammaturga Olympe des Gouges. Evidente fin dal titolo l’ironico riferimento alla «Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino», che due anni prima è stata varata a Versailles dall’assemblea costituente. Siamo alle prime fasi della rivoluzione francese, che ha già abolito i diritti feudali e ora con questo documento, a sua volta ispirato alla dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti d’America, indica all’Europa e al mondo intero la via della modernità. Ma con un neo, che alla visione contemporanea non appariva così vistoso come appare oggi a noi, ma che la sferzante Olympe seppe cogliere con disinvolta sicurezza: i diritti civili solennemente rivendicati dall’assemblea di Versailles erano riservati in via esclusiva alla parte maschile della società.

L’aggiornamento del modello rivoluzionario francese, sul punto specifico dei diritti della donna, impegna molti intellettuali europei. Nel 1792 viene pubblicato a Londra un libro di Mary Wollstonecraft, animatrice del femminismo liberale. S’intitola Una rivendicazione dei diritti della donna, e vi si spiega che la cosiddetta inferiorità femminile, su cui si basa la discriminazione, è esclusivamente legata alle minori opportunità educative offerte alle donne. Il suo libro integra quello comparso l’anno prima, Una rivendicazione dei diritti dell’uomo, che Mary ha scritto come polemica risposta alle Riflessioni sulla rivoluzione francese di Edmund Burke. Se quest’ultimo ha opposto alle novità annunciate a Parigi il peso dell’aristocratica tradizione britannica, la Wollstonecraft manifesta, difendendo le posizioni di Parigi, l’idea di un progresso che necessariamente dovrà allargare i diritti personali e civili. Per poi colmare con il secondo saggio la lacuna relativa al ruolo della donna.

Sempre nel 1792 Theodor von Hippel, funzionario dello stato prussiano, borgomastro di Königsberg, filosofo illuminista e critico sociale, pubblica a Berlino un saggio, Sulla promozione civile delle donne, che lo propone fra gli antesignani dei movimenti per l’emancipazione femminile. Sostiene che l’emarginazione della donna è una delle cause del malessere sociale, soltanto eliminando questo squilibrio, estendendo all’universo femminile i diritti fin qui riservati agli uomini, sarà possibile migliorare la convivenza umana. Qualche anno prima Von Hippel ha dato alle stampe il saggio Sul matrimonio, che assieme al libro sulla promozione civile diventa un manifesto del femminismo europeo, al quale attingeranno a piene mani le suffragette del secolo successivo. Il superamento dell’emarginazione della donna si afferma come uno dei cardini del progresso civile e sociale, fino a sfociare nel ventesimo secolo in un suffragio femminile quasi universale.

Non proprio universale del tutto, perché ancora oggi ci sono parti del mondo in cui quel diritto è negato alle donne. Non più in Arabia Saudita, dove peraltro il voto femminile, già sperimentato nelle elezioni amministrative del 2015, è di difficile esercizio a causa dei molti condizionamenti che continuano a marginalizzare le donne. Nel Libano le elettrici possono votare, ma solo se dimostrano di possedere un’educazione primaria, requisito non richiesto agli uomini. Fa storia a sé la situazione nel sultanato asiatico del Brunei, dove vige un sistema del quale tutto si può dire, ma non che discrimina le donne. È vero che sono escluse dal voto, ma poiché lo sono anche gli uomini il principio della parità è salvo. Il consiglio legislativo, in realtà un organo puramente consultivo, è infatti nominato per decreto: non importa che i cittadini si scomodino per andare alle urne, a sbrigare la faccenda ci pensa il sultano in persona.