Audrey Azoulay è franco-marocchina di religione ebraica: un biglietto da visita ideale per la nuova direttrice generale dell’Unesco. Nel succedere alla bulgara Irina Bokova la neo-eletta, che fu ministra della cultura con François Hollande, ha indicato il suo obiettivo: fare dell’istruzione uno strumento di uguaglianza e di sviluppo sostenibile. Come dice lo statuto dell’agenzia fondata sulle macerie della Seconda guerra mondiale, si tratta di «innalzare le difese della pace» attraverso la cultura. Forse l’arma vincente della nuova direttrice è proprio quel triplice connotato nazionale, etnico e religioso. Cittadina europea, le radici in un paese arabo, la fede israelitica: sembra fatta apposta per mettere tutti d’accordo, soprattutto in quel tormentato Medio Oriente in cui i tre elementi fanno da sempre cortocircuito.
La successione al vertice dell’Unesco, che sarà ratificata il 10 novembre dalla conferenza generale, coincide con l’ennesima crisi, ancora una volta con epicentro nella polveriera mediorientale. Stati Uniti e Israele hanno annunciato il ritiro dall’organizzazione dopo che questa ha adottato due risoluzioni che negano implicitamente il retaggio ebraico di Gerusalemme e di Hebron, le città che con il Tempio di Salomone e la Tomba dei patriarchi sono al centro della sacralità israelitica. Il fatto che Gerusalemme sia sacra anche per cristiani e musulmani non ne cancella il carattere ebraico, quanto alla Tomba dei patriarchi è vero che si trova in Cisgiordania ma appare ugualmente inappropriato etichettarla come sito palestinese.
Non è la prima volta che scoccano scintille fra l’Unesco da una parte, Israele e Stati Uniti dall’altra. Ne è causa l’atteggiamento sul contenzioso arabo-israeliano, considerato pregiudizialmente ostile a Israele. Nel 1974 il Congresso di Washington sospese i contributi all’agenzia colpevole di avere riconosciuto l’Organizzazione per la liberazione della Palestina. Poi la misura venne revocata ma dieci anni più tardi, con Ronald Reagan, gli Stati Uniti uscirono dall’organizzazione, giudicata politicamente irresponsabile. Durante il mandato di Margaret Thatcher anche Londra scelse di andarsene, per rientrare dodici anni dopo con Tony Blair. Nel 2003 George W. Bush riportò dentro gli Stati Uniti ma nel 2011, con Barack Obama, nuovo blocco dei contributi per protesta contro l’ingresso della Palestina.
L’Unesco nacque a Londra nel 1945 ma ha sede a Parigi, nel palazzo costruito da Nervi e Breuer, decorato da Picasso e Miró, circondato dalle sculture di Moore e Calder. Rispetto agli obiettivi dell’agenzia, la mancanza dei contributi americani è paralizzante. Si confida che prima o poi Washington riprenderà a pagare, saldando un arretrato di oltre mezzo miliardo di dollari. Difficilmente la svolta potrà avvenire durante la presidenza di Donald Trump: a parte le ragioni legate alla questione mediorientale, la sua visione del mondo lo porta a considerare con fastidio ogni sorta di multilateralismo. America first, dice Trump: dietro questa formula c’è poco spazio per impegni come l’accordo di Parigi sul controllo del clima, o per enti regionali tipo Nafta o infine per l’Onu e le sue agenzie, accusate di antiamericanismo.
Attende dunque la nuova direttrice una missione assai ardua. Per realizzare i suoi programmi l’Unesco deve superare le difficoltà finanziarie aperte sei anni fa dal rifiuto americano e confermate dalla decisione di Trump. Il bilancio annuale supera i trecento milioni di euro, oltre un quarto era coperto fino al 2011 da Stati Uniti e Israele. Le attività coprono un arco vastissimo, dalla salvaguardia dei beni storico-artistici o naturali definiti patrimonio dell’umanità, che hanno superato il migliaio, alle iniziative in difesa dei diritti umani, per esempio a favore delle donne vittime di violenze, fino ai piani per diffondere l’alfabetizzazione nei paesi poveri. L’Unesco si propone anche di contribuire alla lotta contro il terrorismo, garantendo le attività scolastiche nelle zone minacciate dal proselitismo e nelle aree di crisi, in particolare contrastando lo scandalo dei bambini reclutati nelle formazioni armate.
L’Unesco s’impegna per il restauro dei beni culturali devastati dall’iconoclastia terroristica. È in corso il recupero delle sculture dei Buddha nella valle di Bamiyan in Afghanistan, fatte saltare nel 2001 dai talebani. Si conta d’intervenire nel sito archeologico siriano di Palmira, semidistrutto nel 2015 dai jihadisti dell’Isis che hanno fatto a pezzi alcuni templi mettendone in vendita i frammenti sul mercato nero. In questo modo rovesciando il senso della missione Unesco: non cultura contro violenza, ma violenza contro cultura. Un altro sito minacciato dalla guerra civile che si vuol mettere in sicurezza è la città romana di Leptis Magna in Libia. Altre iniziative riguardano la salvaguardia dei tanti beni naturalistici minacciati dallo sfruttamento dissennato delle risorse.
Erano una ventina gli Stati che nel 1945 decisero di affidare a questa agenzia il compito di consolidare, con gli strumenti della cultura, la pace appena raggiunta dopo il conflitto più sanguinoso della storia. Oggi sono 195, l’Unesco rappresenta dunque l’intero pianeta e ne rispecchia tensioni e conflitti. Negli anni della Guerra fredda vide contrapporsi l’Occidente al blocco sovietico e ai paesi in via di sviluppo, e fu accusata di avere una connotazione filocomunista e terzomondista. L’apice della crisi fu raggiunto il 31 ottobre 2011, quando i delegati di centosette paesi votarono l’adesione della Palestina provocando la sospensione dei contributi americani. Fino alla crisi di questi giorni, suggellata da una nota del Dipartimento di Stato in cui si parla di «persistenti pregiudizi contro Israele».
La nuova direttrice dell’Unesco troverà sul tavolo questo dossier finanziario, ma soprattutto il contenzioso che l’ha determinato, e che corrisponde a una delle crisi più aspre del nostro tempo. Con le sue credenziali etnico-religiose super partes, cercherà di far incontrare israeliani e palestinesi sul terreno che hanno in comune. La Tomba dei patriarchi di Hebron, non è forse anche per gli arabi il santuario di Abramo? E il Muro del pianto, non sorregge forse la Spianata delle moschee? Di fronte a queste semplici realtà sta il nodo della storica incomprensione fra le parti. Riuscire a scioglierlo, o almeno ad allentarlo, con le ragioni della storia e della cultura è l’ardua scommessa di Audrey Azoulay.