6 aprile 2009, ore 3.32, 6,3 della scala Richter. Sono passati ormai 10 anni dal tremendo terremoto che ha colpito l’Aquila e i paesi intorno causando 309 morti. Oggi, in città, ci sono ancora molti cantieri aperti. Nella zona rossa, il centro storico della città, quella che è stata la parte più colpita del capoluogo, molti palazzi sono stati ricostruiti più belli di prima, ma tanti ancora hanno le impalcature e lavori in corso, mentre altri mostrano ancora le loro ferite. Sono solo puntellati per evitare che possano crollare, i portoni sbarrati da catene, le finestre rotte o chiuse da tavole, buchi nel muro che permettono di intravvedere l’interno. Per questi, il tempo, non sembra proprio passato. Alzando lo sguardo si vedono terrazzi e balconi con ancora gli oggetti abbandonati 10 anni fa: un passeggino, vestiti, una vecchia bicicletta.
Camminando per i vicoli vuoti del centro, si sente solo il rumore dei martelli pneumatici e delle gru, si respira polvere e odore di muffa. «I ricordi che ho della mia città erano l’odore del pane e il colore rosa», mi dice Barbara, che lotta per far rinascere la sua città da subito dopo il sisma. «Il centro storico, la piazza del Duomo – continua Barbara – era il cuore di questa città. La vita scorreva lungo queste strade e piazze, gli anziani sedevano intorno alle fontane della piazza, i bambini giocavano nei vicoli e potevi vedere negozi di abbigliamento accanto a quelli degli artigiani. Gli studenti universitari riempivano di voci e risate le strade. Adesso non c’è più niente».
Dopo 10 anni, di giorno, si incontrano solo operai, che per la maggior parte vivono qui dal lunedì al venerdì. Alcuni bar il pomeriggio chiudono alle 5 quando gli operai vanno via. Ed il rischio è che quando tutto sarà ricostruito, il centro dell’Aquila sarà una bella bomboniera, però vuota. Perché gli aquilani non stanno tornando a vivere nelle case ricostruite del centro della città.
È quello che mi dice anche Maria, che ha aperto una pizzeria proprio dietro al Duomo: «Gli Aquilani non tornano a vivere qui in centro perché non ci sono servizi, non trovi un negozio di alimentari, una farmacia, non ci sono le scuole, niente. Per comprare qualcosa devi prendere l’auto e andare fuori, in periferia. Speriamo in futuro, che qualcosa cambi». La piazza della Fontana Luminosa è uno dei pochi posti con un po’ di vita, trovi l’edicola, la farmacia e i pub, dove la sera si ritrovano gli studenti. Ma camminando da questa piazza verso il Duomo, lungo il Corso Vittorio Emanuele, con i portici ancora chiusi, aumenta il senso di solitudine. «Dopo il terremoto c’è stato una forte voglia di aggregazione e solidarietà – continua ancora Barbara – ma adesso, dopo 10 anni, tutti sono più egoisti e hanno abbandonato la città: gli aquilani sono stanchi». Indicando davanti a noi, mi fa notare che accanto ai palazzi storici ricostruiti ci sono ancora macerie, palazzi abbandonati e da ricostruire, strade chiuse. Sembra una trappola per topi.
Il terremoto oltre alla distruzione delle case ha portato anche alla disgregazione sociale. Si sono perse amicizie, perché molti sono stati costretti ad andare ad abitare lungo la costa, a cambiare il luogo di lavoro, e quindi i luoghi d’incontro. Qui non ci sono realtà produttive. Voci non confermate dicono che prima del terremoto a L’Aquila vivevano 75mila persone, mentre oggi sono circa 48mila. All’ora di pranzo la Piazza del Duomo si riempie di operai con tute da lavoro sporche di calcinacci. Bisogna aspettare la sera, per incontrare gli aquilani, nei vicoli intorno alla Fontana Luminosa. Oppure andare in periferia, dove il terremoto ha causato meno danni e i palazzi sono stati ricostruiti secondo le nuove leggi antisismiche.
«A me non piace – racconta Paolo, un infermiere di 40 anni – è diventato un posto asettico, non mi sembra la vera città dell’Aquila. Il motto di noi aquilani, subito dopo il sisma era: dove era e come era. Cioè ricostruire tutto come prima di quella tragica notte del 6 aprile. Ma ci vorrà ancora molto tempo». Passando sopra al ponte del Belvedere, ancora chiuso, si può guardare, lì sotto, la città, un immenso cantiere, con le sue numerose gru mobili che ne segnano il profilo. E sembra di respirare e sentire addosso un senso di ineluttabile impotenza di cui non si riesce a percepire la fine e una crisi che esaurisce le speranze di chi vuole rialzare la testa. Uscendo dalla città, si possono vedere i nuovi palazzi moderni ricostruiti e più fuori ancora si incontrano quelle che furono chiamate le «new town», le «casette», costruite subito dopo il terremoto.
Palazzine antisismiche a tre piani o bungalow in cui alloggiavano gli sfollati prima dell’arrivo dell’inverno. Posti tranquilli dove ad oggi vivono circa 10mila persone che hanno scelto di aspettare a tornare nella città cantiere.
Decido di arrivare fino a Tempera e Onna, due paesi simbolo del terremoto. Tempera è un piccolo paese con ancora l’intero centro storico distrutto «e qui va tutto a rilento, chissà quando potremmo tornare a calpestare le nostre strade», mi dice un anziano seduto su una panchina mentre fissa il fiume Vera. Mentre Onna, piccolo paese di circa 350 anime, raso al suolo per più dell’80% e dove ci furono 41 morti per la violenta scossa, anche se in parte ricostruito, sembra la scenografia abbandonata di un film: le facciate nuove delle case accanto alle macerie, ma nessuno per la strada.
Rientro a L’Aquila e intorno alla Chiesa di San Bernardino incrocio di nuovo solo operai che vanno via, hanno finito la giornata di lavoro. Resta il deserto. L’Aquila è ancora più vuota, quasi spettrale, in attesa di una rinascita che non si sa se arriverà.